martedì 12 marzo 2013

The Art of Listening


The Art of Listening
di Ran Ceretta, 3H

   Joe Villino (fotografo)

Fonte: Articolo/Intervista a Henning Mankell, di Tiina Nunnally (dallo Swedish), tradotto nel New York Times.

Accenni autobiografici:
Henning Mankell, nato a Stoccolma il 3 febbraio 1948, è uno scrittore svedese diventato famoso per i suoi romanzi gialli e polizieschi. Con il primo libro del commissario Wallander (Assassino senza volto) ha vinto nel 1992  il premio Glasnyckeln (Chiave di vetro in svedese), dedicato ai migliori romanzi gialli dei paesi scandinavi. Nel 1998 si è sposato con la registra teatrale e televisiva Eva Bergman, figlia di Ingmar Bergman. Il 2 giugno 2008 gli è stata conferita la Laurea honoris causa dalla Saint Andrews University in Scozia. Tuttora attivo nel campo cinematografico, letterario e giornalistico, Mankell vive “con un piede nella sabbia e uno nella neve”, dividendosi tra la campagna svedese e Maputo, in Mozambico, dove dirige il Teatro Avenida.


Alla domanda “Perché è andato in Africa?” dell’ intervista tenuta dalla  giornalista Tiina Nunnally, Henning Mankell ha risposto in questo modo: 

 “Sono andato in Africa con un solo scopo: volevo vedere il mondo al di fuori della prospettiva di egocentrismo europeo. Avrei potuto scegliere l’Asia o il Sud America. Sono finito in Africa perché là il biglietto aereo era il più economico. Sono arrivato e sono rimasto. Per quasi 25 anni ho vissuto dentro e fuori il Mozambico. Il tempo è passato, e non sono più giovane, infatti, mi sto avvicinando alla vecchiaia. Ma il mio motivo per vivere questa esistenza a cavalcioni, con un piede nella sabbia africana e l'altro nella neve europea, nella regione malinconia di Norrland in Svezia, dove sono cresciuto, ha a che fare con la voglia di vedere con chiarezza, di capire. Il modo più semplice per spiegare quello che ho imparato dalla mia vita in Africa è attraverso una parabola sul perché gli esseri umani abbiano due orecchie ma una sola lingua. Perché questo? Probabilmente così che tutti noi dobbiamo ascoltare il doppio di quanto parliamo. In Africa l'ascolto è un principio guida. E 'un principio che è stato perso nel chiacchiericcio costante del mondo occidentale, dove nessuno sembra avere il tempo o anche il desiderio di ascoltare chiunque altro. E' come se avessimo perso completamente la capacità di ascoltare. Parliamo e parliamo, e finiamo spaventati dal silenzio, visto come il rifugio di coloro che sono a corto di risposte.

Sono abbastanza vecchio da ricordare quando la letteratura sud americana emerse nella coscienza popolare e cambiò per sempre la nostra visione della condizione umana e che cosa significa davvero essere umani. Ora, penso che sia il turno dell'Africa. Ovunque le persone nel continente africano scrivono e raccontano storie. Sembra che la letteratura africana, probabilmente, irromperà presto sulla scena mondiale; così come la letteratura sudamericana ha fatto alcuni anni fa, quando Gabriel García Márquez e altri guidarono una rivolta tumultuosa e fortemente emotiva contro la realtà politica dell’epoca, già radicata da molto tempo. Presto l'effusione letteraria africana offrirà una nuova prospettiva sulla condizione umana. L'autore mozambicano Mia Couto ha, per esempio, creato un magico realismo africano che mescola il linguaggio scritto con le grandi tradizioni orali dell'Africa. Se siamo capaci di ascoltare, andremo a scoprire che molti racconti africani hanno strutture completamente diverse da quelle a cui siamo abituati noi occidentali. Sto semplificando troppo, naturalmente. Eppure tutti sanno che c'è del vero in quel che sto dicendo: la  letteratura occidentale è normalmente lineare, procede dall'inizio alla fine senza grandi digressioni nello spazio o nel tempo.

Questo non è il caso dell’Africa, nella quale, invece di narrativa lineare, c'è una  narrazione sfrenata ed esuberante che salta avanti e indietro nel tempo e fonde insieme passato e presente. Ad esempio, qualcuno che potrebbe essere morto da tempo può intervenire senza tante storie in una conversazione tra due persone vive e vegete. Per fare un altro esempio: i  nomadi che ancora oggi abitano il deserto del Kalahari si raccontavano e si raccontano tuttora l'un l'altro storie sulle loro peregrinazioni che durano giornate intere, durante le quali vanno alla ricerca di radici e animali da cacciare; quindi la loro cultura è rimasta nel tempo, conservata dalle loro parole. Spesso essi raccontano più storie in contemporanea; a volte, invece, ne narrano tre o quattro in parallelo. Ma prima di ritornare al punto di partenza, riescono a dividere ciascuna storia dagli intrecci che aveva con le altre e a far sì che ognuna abbia la propria fine.”

Mankell, a questo punto,  continua l’intervista con un aneddoto: “Alcuni anni fa mi sono seduto su una panchina di pietra al di fuori del Teatro Avenida di Maputo, in Mozambico, dove lavoro come consulente artistico. Era una giornata calda, e ci stavamo prendendo una pausa dalle prove teatrali, così siamo fuggiti fuori, sperando in una brezza fresca derivante dal passato. L’impianto di aria condizionata del teatro aveva da tempo smesso di funzionare e mentre stavamo lavorando ci dovevano essere più di 100 gradi all’interno del teatro, dunque l’unica alternativa era uscire all’aperto. Due vecchi africani erano seduti su una panchina all’ombra di un albero, ma c'era spazio anche per me. In Africa le persone condividono in modo fraterno molto di più che soltanto un po’ di acqua; quindi, anche quando si tratta di ombra, la gente è davvero generosa. Mentre ero seduto con loro, ho sentito i due uomini parlare di un terzo uomo anziano che era morto da poco. Uno di loro disse: “Sono stato a trovarlo a casa sua. Ha iniziato a raccontarmi una storia incredibile riguardo a un fatto della sua giovinezza; ma era una lunga storia. Venne la notte, e abbiamo deciso che sarei dovuto tornare il giorno dopo per sentire il resto. Ma quando sono arrivato, era morto”.

“L'uomo cadde nel silenzio. Io, allora, decisi che non avrei lasciato quella panchina fino a quando non avessi sentito come l'altro uomo avrebbe risposto a quello che aveva appena ascoltato. Ho avuto l’istintiva sensazione che si sarebbe rivelata essere una risposta importante. Finalmente anche lui parlò: “Questo non è un buon modo di morire –ha detto- prima di aver raccontato la fine della propria storia”. Ascoltando la conversazione di questi due uomini ho pensato che,  per la nostra specie, la denominazione di Homo sapiens va di pari passo con quella di Homo narrans. Ciò che ci differenzia dagli animali, infatti, non è tanto la capacità di utilizzare la parola per comunicare, quanto il fatto di potere e sapere ascoltare le altre persone e, quindi, di venire a conoscenza dei loro sogni, paure, gioie, dolori, desideri e sconfitte e avere la certezza che essi, a loro volta, possano ascoltarci e sentire ciò che proviamo e pensiamo.

Molte persone, inoltre, fanno l'errore di confondere le informazioni con la conoscenza. Esse non sono la stessa cosa: la conoscenza, infatti,  comporta l'interpretazione delle informazioni, essa passa attraverso l'ascolto. Quindi se, come dico, siamo creature capaci di narrare e desiderose di ascoltare, i nostri racconti dureranno in eterno perché, si spera, ci sarà sempre qualcuno pronto ad ascoltarli.  Molte parole saranno scritte nel vento o nella sabbia, oppure finiranno in qualche oscuro caveau digitale; ma  la narrazione dell’uomo andrà avanti fino a quando l'essere umano si fermerà ad ascoltarla. Allora noi possiamo spedire la narrazione della nostra grande umanità fuori, nell'universo infinito? Chi lo sa. Forse qualcuno è là fuori, pronto ad ascoltare...”

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