The Art of Listening
di Ran Ceretta, 3H
Joe Villino (fotografo)
Fonte:
Articolo/Intervista a Henning Mankell, di Tiina Nunnally (dallo
Swedish), tradotto nel New York Times.
Accenni
autobiografici:
Henning Mankell, nato a Stoccolma il 3 febbraio 1948,
è uno scrittore svedese diventato famoso per i suoi romanzi gialli e
polizieschi. Con il primo libro del commissario Wallander (Assassino senza
volto) ha vinto nel 1992 il premio Glasnyckeln
(Chiave di vetro in svedese),
dedicato ai migliori romanzi gialli dei paesi scandinavi. Nel 1998 si è sposato
con la registra teatrale e televisiva Eva Bergman, figlia di Ingmar Bergman. Il
2 giugno
2008
gli è stata conferita la Laurea honoris causa dalla Saint Andrews University
in Scozia.
Tuttora attivo nel campo cinematografico, letterario e giornalistico, Mankell vive “con
un piede nella sabbia e uno nella neve”, dividendosi tra la campagna svedese e Maputo,
in Mozambico, dove dirige il Teatro Avenida.
Alla domanda “Perché è andato in Africa?” dell’ intervista tenuta dalla giornalista Tiina Nunnally, Henning Mankell ha risposto in
questo modo:
“Sono andato in
Africa con un solo scopo: volevo vedere il mondo al di fuori della prospettiva
di egocentrismo europeo. Avrei potuto scegliere l’Asia o il Sud America. Sono finito
in Africa perché là il biglietto aereo era il più economico. Sono arrivato e
sono rimasto. Per quasi 25 anni ho vissuto dentro e fuori il Mozambico. Il
tempo è passato, e non sono più giovane, infatti, mi sto avvicinando alla
vecchiaia. Ma il mio motivo per vivere questa esistenza a cavalcioni, con un
piede nella sabbia africana e l'altro nella neve europea, nella regione
malinconia di Norrland in Svezia, dove sono cresciuto, ha a che fare con la
voglia di vedere con chiarezza, di capire. Il modo più semplice per spiegare
quello che ho imparato dalla mia vita in Africa è attraverso una parabola sul
perché gli esseri umani abbiano due orecchie ma una sola lingua. Perché questo?
Probabilmente così che tutti noi dobbiamo ascoltare il doppio di quanto
parliamo. In Africa l'ascolto è un principio guida. E 'un principio che è stato
perso nel chiacchiericcio costante del mondo occidentale, dove nessuno sembra
avere il tempo o anche il desiderio di ascoltare chiunque altro. E' come se
avessimo perso completamente la capacità di ascoltare. Parliamo e parliamo, e
finiamo spaventati dal silenzio, visto come il rifugio di coloro che sono a
corto di risposte.
Sono abbastanza vecchio da ricordare quando la
letteratura sud americana emerse nella coscienza popolare e cambiò per sempre
la nostra visione della condizione umana e che cosa significa davvero essere
umani. Ora, penso che sia il turno dell'Africa. Ovunque le persone nel
continente africano scrivono e raccontano storie. Sembra che la letteratura
africana, probabilmente, irromperà presto sulla scena mondiale; così come la
letteratura sudamericana ha fatto alcuni anni fa, quando Gabriel García Márquez
e altri guidarono una rivolta tumultuosa e fortemente emotiva contro la realtà
politica dell’epoca, già radicata da molto tempo. Presto l'effusione letteraria
africana offrirà una nuova prospettiva sulla condizione umana. L'autore
mozambicano Mia Couto ha, per esempio, creato un magico realismo africano che
mescola il linguaggio scritto con le grandi tradizioni orali dell'Africa. Se
siamo capaci di ascoltare, andremo a scoprire che molti racconti africani hanno
strutture completamente diverse da quelle a cui siamo abituati noi occidentali.
Sto semplificando troppo, naturalmente. Eppure tutti sanno che c'è del vero in
quel che sto dicendo: la letteratura
occidentale è normalmente lineare, procede dall'inizio alla fine senza grandi
digressioni nello spazio o nel tempo.
Questo non è il caso dell’Africa, nella quale, invece
di narrativa lineare, c'è una narrazione
sfrenata ed esuberante che salta avanti e indietro nel tempo e fonde insieme
passato e presente. Ad esempio, qualcuno che potrebbe essere morto da tempo può
intervenire senza tante storie in una conversazione tra due persone vive e
vegete. Per fare un altro esempio: i nomadi che ancora oggi abitano il deserto del
Kalahari si raccontavano e si raccontano tuttora l'un l'altro storie sulle loro
peregrinazioni che durano giornate intere, durante le quali vanno alla ricerca di
radici e animali da cacciare; quindi la loro cultura è rimasta nel tempo,
conservata dalle loro parole. Spesso essi raccontano più storie in
contemporanea; a volte, invece, ne narrano tre o quattro in parallelo. Ma prima
di ritornare al punto di partenza, riescono a dividere ciascuna storia dagli
intrecci che aveva con le altre e a far sì che ognuna abbia la propria fine.”
Mankell, a questo punto, continua l’intervista con un aneddoto: “Alcuni
anni fa mi sono seduto su una panchina di pietra al di fuori del Teatro Avenida
di Maputo, in Mozambico, dove lavoro come consulente artistico. Era una
giornata calda, e ci stavamo prendendo una pausa dalle prove teatrali, così
siamo fuggiti fuori, sperando in una brezza fresca derivante dal passato.
L’impianto di aria condizionata del teatro aveva da tempo smesso di funzionare
e mentre stavamo lavorando ci dovevano essere più di 100 gradi all’interno del
teatro, dunque l’unica alternativa era uscire all’aperto. Due vecchi africani
erano seduti su una panchina all’ombra di un albero, ma c'era spazio anche per
me. In Africa le persone condividono in modo fraterno molto di più che soltanto
un po’ di acqua; quindi, anche quando si tratta di ombra, la gente è davvero generosa.
Mentre ero seduto con loro, ho sentito i due uomini parlare di un terzo uomo anziano
che era morto da poco. Uno di loro disse: “Sono stato a trovarlo a casa sua. Ha
iniziato a raccontarmi una storia incredibile riguardo a un fatto della sua
giovinezza; ma era una lunga storia. Venne la notte, e abbiamo deciso che sarei
dovuto tornare il giorno dopo per sentire il resto. Ma quando sono arrivato,
era morto”.
“L'uomo cadde nel silenzio. Io, allora, decisi che non
avrei lasciato quella panchina fino a quando non avessi sentito come l'altro
uomo avrebbe risposto a quello che aveva appena ascoltato. Ho avuto l’istintiva
sensazione che si sarebbe rivelata essere una risposta importante. Finalmente
anche lui parlò: “Questo non è un buon modo di morire –ha detto- prima di aver
raccontato la fine della propria storia”. Ascoltando la conversazione di questi
due uomini ho pensato che, per la nostra
specie, la denominazione di Homo sapiens va di pari passo con quella di Homo
narrans. Ciò che ci differenzia dagli animali, infatti, non è tanto la capacità
di utilizzare la parola per comunicare, quanto il fatto di potere e sapere
ascoltare le altre persone e, quindi, di venire a conoscenza dei loro sogni,
paure, gioie, dolori, desideri e sconfitte e avere la certezza che essi, a loro
volta, possano ascoltarci e sentire ciò che proviamo e pensiamo.
Molte persone, inoltre, fanno l'errore di confondere
le informazioni con la conoscenza. Esse non sono la stessa cosa: la conoscenza,
infatti, comporta l'interpretazione delle
informazioni, essa passa attraverso l'ascolto. Quindi se, come dico, siamo
creature capaci di narrare e desiderose di ascoltare, i nostri racconti
dureranno in eterno perché, si spera, ci sarà sempre qualcuno pronto ad
ascoltarli. Molte parole saranno scritte
nel vento o nella sabbia, oppure finiranno in qualche oscuro caveau digitale;
ma la narrazione dell’uomo andrà avanti
fino a quando l'essere umano si fermerà ad ascoltarla. Allora noi possiamo
spedire la narrazione della nostra grande umanità fuori, nell'universo
infinito? Chi lo sa. Forse qualcuno è là fuori, pronto ad ascoltare...”
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