giovedì 14 marzo 2013


                        Il Rancore 

di Claudia Ansaloni

Il temporale scosse la terra per i tre giorni del mio viaggio, come una campana di ferro lungo i fiumi e sulle vigne coperte di neve. Nel mio scompartimento scivolarono le persone come ombre, ed io non avrei saputo indicare di che nazionalità fossero, né se fossero uomini o minotauri, o amici o fantasmi della mia malattia.
Arrivato a Francoforte passai in città. Là era più caldo: addirittura, quel pomeriggio, si mise a piovere. Naturalmente era neve, ma di quella che schizza pesante dal cielo e che ti trafigge come se avessero aperto funeste cateratte di proiettili. I miei, macchinando per una mia vita da pendolare, di quelli che portano tutte le settimane scatole di biscotti del luogo di studi, quella vita che, infine, avevo scartato, a suo tempo mi avevano regalato un’enorme motocicletta. L’avevo nascosta in un’officina abbandonata nel centro della città. Il tempo era nero come il mosto. 
Spolverai il cuoio della sella con un soffio; sulle marmitte crescevano alcune ragnatele. Mi legai i capelli ed infilai dei giornali sotto la giacca, poi aprii il portellone quasi sottomarino dello scantinato facendo stridere la lamiera. 
La pianura nei pressi del fiume era umida come se stessi  tragittando in una piscina. La tempesta di fulmini ballava sui campi sepolti di neve come saltando sui tasti di un organetto; a volte invece, il maggese era nero a causa del vomere della pioggia.
Per due ore andai senza fermarmi, sulla strada piatta rallegrata solo occasionalmente dallo spiccare di un casolare o di un albero raggrinzito; i pali del telegrafo erano gli elementi più verticali nel raggio dell’orizzonte. Finalmente raggiunsi un paesino senza piazze, stiracchiato lungo una parallela del fiume. Ero talmente fradicio che mi rifugiai immediatamente nell’unico locale del borgo, ordinando caffè nero e una brioche; guardai la terra fumare dai vetri, mentre fumava anche la mia tazza. Il caffè sapeva vagamente di calcare.

Vicino al paese c’era una chiesetta, con adiacente un cimitero. Qualcosa come una luce di sole invernale si aprì in una mano alla fine della pianura: per un attimo brillò molto grande, per poi venire riinghiottita da un fitto traffico di nuvole. Spinto da non so che insana mania, entrai nel cimitero: un domino di vecchie pietre. 
Vi erano messaggi ridicoli lasciati dai parenti e dagli amici; gente caduta capitolando eroicamente contro il muso di un furgone. Ragazzi per una vita che erano divenuti improvvisamente vecchi, e figli di n.n. ritrovati una sera vicino ai sacchi della spazzatura, nel sudario di un alone odoroso di luppolo.
Gente, insomma. Ciascuno aveva fatto la sua strada.
Un uomo era fermo sul recinto nei pressi della chiesa. Stava come una statua. Il freddo rinvigorì, e con esso la qualità della neve: i cristalli tornarono ghirlande dalla geometria perfetta, mentre il tuono si udiva ancora, ma era soffuso come il guaito di un cane. L’uomo si accarezzò la barba a pizzo, la luce che risaliva solo fino alle labbra, due labbra che sembravano dei frutti tropicali. Con un poco di acume, sotto il cappello, si sarebbe potuto anche vedere il cervello da assassino ingranare come un gioco di parole.
Le sue scarpe nere lucevano, e non affondavano nella neve.
Maledetto, pensai. Mi ha sempre mentito.
Mi avvicinai a passi pesanti, mentre lui perdeva ogni vantaggio a far finta di non volere notarmi. Nonostante il mio incedere marziale e che invitava al duello l’uomo non indietreggiò, né si spostò di un millimetro. Anzi, quando mi trovai poco distante, mi allungò la mano per invitarmi a stringerla. La cacciai indietro con un gesto brusco.
- Cosa ci fa lei qui?! –
- La pedino. – disse Darklock, incalzato da un sorriso.
- Sì, sua madre!-
Il sorriso gli scivolò nella fanghiglia, sotto la suola delle scarpe.
- Ehi, piano. –
- Lei… mi ha preceduto! Ed io che mi ero sempre bevuto tutto! –
- Guardi che io non le ho mai mentito. E’la sua mente che le mente. La mente che le mente…- ripetè, divertito dalla svista.
- E come lo chiama questo?! Dio, che stupido… -
- Meden, sa forse qualcosa di Dio? Dio è vetro. Non addossiamogli responsabilità eccessive. Ma vede, io sono venuto solo per constatare i risultati del mio esperimento. E debbo dire che non potrei essere più soddisfatto. Ecco qui: lei sta morendo, Meden!-
Raggelai sui miei piedi. Una doccia di paura mi aveva fatto montare sull’attenti. 
- Cosa diavolo vorrebbe dire, con questi suoi intermezzi poco felici? – 
Lui non mi rispose subito. Invece sospirò.
- Ah, che scherzo fantastico, il tempo. Provi ad ascoltare: questo è il dimenarsi del lombrico fra le ossa. Potrebbe vederlo, se fosse abituato all'osservazione dell'impercettibile, questo mondo sotterraneo ed infimo che continua a mutare in una ciclica metamorfosi. Questo è il tempo che siamo costretti a subire: carne morta che nutre carne viva che sarà morta; e così sia. Ma lei amico mio, lei così perennemente giovane, quando l’ho vista, ne sembrava immune. Immune, quanto immune dalla vita. Dal momento in cui le ho messo qualcosa di quel mio veleno l’ho contagiata, è vero: ora è infetto, ma ha una possibilità per rendersi ancora più grande mentre aspetta di dipartirsene... sì, ora è vivo. Vive.- concluse semplicemente. 
Mi appoggiai allo steccato di fianco a lui, incrociando le braccia sul petto. Irritato. 
Riprese:
- Si è mai chiesto, signor Meden, perchè vive? - 
Mio malgrado, ma “affermativo signore”, pensai con acidità. Diamogli un osso per i suoi denti, facciamolo giocare, pensai. 
- Quale che sia il nostro compito in terra, non è di alcuna importanza – sentenziai, col tono di uno che attende un aldilà con fermezza.
- Su questo sono assolutamente d'accordo con lei. Ma se volessimo parlare termini un po’spiccioli, noi esistiamo per sopravvivere: perchè la nostra missione è infondere la vita in altre creature a noi simili. Senza fine. Noi concepiamo la morte da che ci siamo completamente avveduti della nostra individualità: proprio come lei. Vede, una vita è un segmento, ma “la vita” è una circonferenza, o un'unica pulsione. In verità la visione d'insieme di una foresta rende sgomenti, ma è l'unica cosa che realmente conti; il fascino del singolo albero è innegabile, e infatti li ha cercati per tutta la strada: ma di per sè è futile. Se qualcosa esiste ed è infinito, allora ogni cosa è infinitamente sola, ed infinitamente triste. Per questo la religione è il nostro pane,  la salvezza dei perdenti.–
- Vorrebbe dire che tutti gli uomini sono uguali. Che devono morire...-
- Molti sono nati, per morire. Ancor più nel caso della razza umana, sopravvivere non è un diritto, ma un dovere; quanto al vivere nè più nè meno che una capacità. Vede, i parametri per distinguere i forti dai deboli, parametri naturali o autodeterminatisi a seconda delle epoche, non sono gli stessi per discernere i talenti dalle nullità. Spesso chi riesce nella vita non avrebbe null' altro di che vantarsi, ma neppure il talentuoso fallito ne ha. Anzi, dovrebbe vergognarsi di non avere sfruttato il mondo più appieno. Il mondo, la civiltà, è un vecchio bavoso che si innamora delle sue prostitute; l’idealismo non serve: serve carattere. Le assicuro che non c’è nulla di bello, in un genio senza carattere. No, non siamo tutti uguali. L’arbitrio è sempre dalla parte del più forte, come è naturale ed equo che sia: altrimenti Dio sarebbe un lavoratore precario. Ma è meglio ricordare che ognuno è ciò che è: per parlarvi della mia esperienza personale, io fui castigato proprio per averlo dimenticato, e non rinnego il mio errore, ma ciò non toglie che io sia io ed io soltanto. E'davvero divertente osservare l'uomo ribellarsi; è in effetti la peculiarità divertente dell'uomo. La democrazia è una pagliacciata, ma fa l'effetto di un anestetico. Finchè non ve n'è un eccesso, situazione pressochè impossibile, tutto va come deve andare. Per qualunque animale gregario, dal momento pasto all'accoppiamento, v'è sempre chi sta sotto e chi sopra. Diffidate di chi predica il contrario: o è un perdente o è un infido. Nel caso dell'uomo, la regola mors tua vita mea è stata declinata a disegno divino. Un tocco di stile tipico della nostra specie, ma se vogliamo essere esatti i deboli non esistono che per testare gli armamenti dei forti, e questi ultimi a null' altro che a usufruire della religione dei deboli. Sì, in effetti, è buffo vederli poi tutti qui, coperti di muschi...  Ma si guardi, caro il mio uomo, si ascolti. Quello che c’è di divino in noi, in lei è vita. E vita significa distruzione. Consunzione. Continuare a seppellire.... se solo avesse un traguardo, e non una fine…-
Avevo la nausea da predica domenicale.
- Ed io Lord Darcklock sarei un forte, così, secondo lei? A mangiare alla sua ciotola? A succhiare? – lo interrogai, mimando la sfida con la bocca. Egli, per contro, rivolse verso l'alto uno sguardo da bambino colto con le mani nella marmellata, e piegò le labbra.
- Biologicamente e politicamente parlando, tutto  è commisurato alla portata del suo fucile, o l'estensione del campanile, la sua capacità di persuasione, non so se mi spiego. –
Rimasi a bocca aperta, cogliendo il suggerimento.
- Lei è disgustoso – improvvisai ispirato. Inclinai la bocca, per il disgusto.
- Davvero metterebbe in dubbio la sacralità della potenza? Essa è stata venerata da popoli molto più antichi e radicati di questa frivola civiltà moderna. Lei è un forte signor Meden, altrimenti non l’avrei degnata di uno sguardo. Vi sono gli uomini forti che si fingono deboli, ma questo perchè una certa forma di forza si mostra soprattutto nel sadomasochismo. Non bisogna prenderli alla lettera, bisogna prenderli da dove vogliono essere presi.-
Al mio sguardo orripilato, ai miei occhi sbottonati dalle orbite, lui si mise a ridere con una risata fresca, tagliente, studiata per suonare sgradevole.
- Ah ah, amice, la storia credetemi, non si occupa dei deboli... –
- Ma si occupa dei popoli. – gracchiai. Volevo andarmene. La mia moto riluceva di bruma là sul fossato, da qualche parte, per andare.
- Sì, dei popoli. – acconsentì, sfregandosi il naso per riprendersi dall’ilarità – Come le dicevo prima. Ma vede, la collettività potente è una massa, è quantità, forma un Uno grosso e grasso, e quanto più è grosso e grasso tanto più è un grande individuo. Se vogliamo metterla così. E quando invece la storia la fa il passare dei giorni, allora, come già detto, il collettivo si traduce nella morte continua di Dio. E non è che il lavorio dell’uomo, come in un formicaio, sia inutile. Ma si scava le proprie tombe. Onorevole, onorevole. Eppure, ancora una volta, devo ammetterlo, un grande Uno esiste, un Individuo, che dal momento in cui nasce inizia a morire... ed ha bisogno di nascere, perchè se esistesse senza nascere allora non si penserebbe, e non ci sarebbe nessuna storia. E mi è piaciuto lasciarla libero nei suoi pensieri...  sì mi piace, vederla vivere. –

Vi era una vena di minaccia in tutto ciò che diceva. Rimasi corrucciato. Ad un certo punto notai un ometto, una sagoma nera sulla strada poco lontana,  che si avvicinava alla mia motocicletta, mi guardava come per valutare la mia pericolosità e poi si chinava sui suoi cilindri potenti ed il manubrio, incuriosito. Qualcosa mi colpì: mentre scrutava le nostre figure da lontano, passava su quella di Darklock come se fosse acqua. E non era naturale. Qualcosa di tremendo iniziò ad insinuarsi tra le mie considerazioni.
- Cosa ci fa lei qui? – aggredii di nuovo il mio interlocutore. Che, per un attimo, parve basito, quasi dispiaciuto.
- Gliel’ho già detto. – 
- Perchè mi segue? –
- E’così sicuro che io la segua? E’ poi così sicuro che non sia lei, a volermi incontrare? –
- Mi sta dando del pazzo? !– gridai
- Le sto dando dell’amico.- rispose, tanto più a bassa voce - Io mi confido, con gli amici. –
- Io non sono amico suo. Non mi segua più, la prego. –
- Basterà che lei lo desideri. Lo desidera? –
- Sì.
- Non menta a se stesso, Meden. Lo desidera? –
- Sì!-
Il martellare di piombo dei tuoni vibrò nelle valve delle orecchie, impedendomi di udire qualcosa che mormorò a mezza voce; avrei solo desiderato che l'angelo nero si allonanasse, che mi lasciasse temporeggiare... io, che non avevo mai preso una decisione. Pareva accigliato, ma per nulla battagliero. Annuì lentamente, quasi come gli costasse un enorme sforzo.
- Va bene. Ci vediamo, Meden. –
Mi voltò le spalle. Sì allontanò.
- Non credo!- ululai nella pioggia. Tremavo di paura.
Seguendolo con lo sguaro lo vidi alzare una mano.
Qualcosa nel cielo era sanguigno, era gelido, e aveva preso di nuovo a nevicare: Darklock voltò l’angolo della chiesa nel sole che tramontava; ed io tornai stordito a barcollare verso la mia motocicletta. Quando venne la notte, accesi i fanali.

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