mercoledì 6 marzo 2013

"Come cambia il sentimento più antico del mondo"


Come cambia il sentimento più antico del mondo

di Maria Visconti, 3F
C'era una volta la paura. Quella paura che faceva tremare i polsi davanti a una decisione importante da prendere, che attanagliava lo stomaco al momento di affrontare un viaggio pericoloso o di fronte alla prospettiva di cambiare lavoro. Il mondo stesso era intriso di paura: nella quotidianità della vita, come dimostra Rosellina Balbi ("Madre paura", 1984), ma anche nell'orizzonte immaginario della società. La paura stava dietro ogni momento dell'esistenza, la caratterizzava e la guidava, imprimendo stimoli sempre acuti e insopprimibili che culminavano con la paura regina di tutte le paure: la paura della morte.
Questo sentimento ha regolato e indirizzato per secoli l'attività umana, ne ha indicato le coordinate e determinato le scelte, finalizzando la formulazione stessa delle società civili in quanto riduttrici di paura. Tutte le comunità basate su legami "solidi" – secondo la felice intuizione di Zygmunt Bauman – sono fondate sulla paura e sulla necessità istituzionale di controllarla e ridurla. Ma la paura può essere anche il collante capace di tenere in piedi gli Stati, quando i legami sociali e la funzione stessa dello Stato si vanno indebolendo. La minaccia di paure reali o immaginarie diviene allora un potente strumento di rafforzamento del governo. Infatti, secondo Bauman: "In un periodo in cui tutte le grandi idee hanno perso credibilità, la paura di un nemico fantasma è tutto ciò che è rimasto ai politici per conservare il potere" (Paura liquida, 2009). Lo testimonia anche la Letteratura con "La fattoria degli animali" di George Orwell, 1947.
Ed è questo il compito degli Stati nazionali, a partire dal XVII secolo, come di tutti gli Stati autoritari che si sono succeduti nel secolo scorso; il totalitarismo – per definizione un regime politico generatore di paure – nasce, paradossalmente, come reazione a paure sociali di ben più vaste proporzioni.
Tutto ciò non si applica pedissequamente alle società "liquide". Nella società occidentale in cui attualmente viviamo immersi, il predominio assoluto della paura sembra essere messo in discussione. I legami liquidi stanno trasformando il mondo che conoscevamo verso un mondo "senza paura". Non tanto aggressivo, disinibito o spavaldo, quanto sostanzialmente indifferente alla paura. La causa di questa tendenza sociale che investe la psicologia degli individui non è un affrancamento da un'oppressione millenaria, di una liberazione consapevole da una condizione primordiale, né tanto meno conseguenza di un processo di maturazione collettiva: proviene invece dall'adattamento a una mutata condizione esistenziale, quale conseguenza inevitabile dell'incertezza che pervade la nostra società in ogni momento della vita. E, come tale, non si può considerare un progresso.

Vincere la paura vuol dire imparare a convivere con essa, a controllarla e utilizzarla a nostro vantaggio. Se negli animali la paura è solo un istinto naturale che spinge alla fuga, all'immobilizzazione se il pericolo è incombente, alla reazione aggressiva se non si hanno altre vie d'uscita, l'uomo ha elaborato altre difese di natura culturale, cioè indotte dalla ragione e prodotte dalla conoscenza. Due metodi di affrontare la paura rispetto a due metodi di concepire la paura che i Greci avevano già individuato, assegnando loro nomi diversi. Fobos era la paura cieca, inconsapevole, con radici profonde, ataviche, difficilmente controllabili. Deinos era la paura conscia di un pericolo incombente di cui si conoscesse l'origine: viene dalla radice Deos in riferimento al timore religioso. Fobos è figlio di Ares, dio della guerra, divinità venerata soprattutto a Sparta. Sugli scudi dei guerrieri si trovano raffigurate insieme le immagini di Fobos e della Gorgone. A Roma, erede della cultura ellenica, gli dei della paura sono Metus, corrispondente a Deinos, e Pavor (da cui l'aggettivo "pavido") a Fobos. Fobos starebbe al Mythos come Deinos al Logos. Non solo Fobos è stato sacrificato in favore di Deinos, ma sembra che il suo destino fosse segnato e il suo senso destinato a perdersi con l'avanzare della civiltà.
Due paure, due tipologie ben distinte che tuttavia la lingua moderna non tiene in debito conto, spesso confondendole. La psicanalisi ha cercato di ripristinarne i concetti, individuando l'antico Deinos nella paura vera e propria, quel senso d'angoscia interiore non ben definito, che non ha un oggetto, capace però non sconvolgere l'equilibrio psicofisico dell'individuo anche in assenza di una minaccia concreta. Secondo questa distinzione la paura, per essere tale, deve essere riferita a ciò che si conosce, fosse anche un briciolo di razionalità, mentre l'angoscia è propria di aspettative ansiogene totalmente sconosciute. Da questa distinzione, ormai correntemente accettata, Sigmund Freud ha tratto la teoria del "perturbante", applicata con notevole successo alla Letteratura e all'Arte. La paura avrebbe a che fare con il ritorno di un'infinità di emozioni che, per le ragioni più diverse, sono state collocate in una zona non percepibile dalla coscienza, letteralmente "sepolte", e dunque "rimosse", a seguito di un'operazione difensiva della mente. E' il caso dell'idea della morte, accantonata per poter continuare a vivere ma che può dar luogo a effetti spaventevoli se fatta riaffiorare in particolari situazioni.
Conoscere il nemico da combattere è, nella strategia bellica, il primo passo per guadagnare la vittoria. Alla paura della morte ha provveduto la religione facendo della conclusione di ogni ciclo vitale un passaggio necessario a raggiungere uno status soprannaturale, attraverso un atto di fede, cioè attraverso l'intervento di delle facoltà nobili della mente: la coscienza, l'intelligenza, la logica, la memoria, l'immaginazione, l'astrazione.
Alle paure "naturali", certe e potenzialmente controllabili – dal fuoco ai temporali, dalle alluvioni ai terremoti – si sono aggiunte col tempo le paure "artificiali" prodotte dall'uomo stesso, in grado di provocare disastri anche più gravi di quelli naturali, la cui artificialità non garantisce affatto la controllabilità da parte di una tecnologia non sempre perfetta. La centrale di Chernobyl è ancora là a ricordarcelo. La tecnologia ha bisogno di una continua e accurata manutenzione i cui costi tendono a salire risultando sempre meno sopportabili per la comunità che se ne fa carico. L'insicurezza che lo stato moderno dovrebbe cancellare per sempre ha raggiunto livelli che preoccupano i cittadini: si è moltiplicato di pari passo con quello che una volta era stato definito "progresso" e in nome del quale era lecito adoperarsi, soffrire, sacrificarsi, mentre ora non ha più un nome. Al pari del dio Fobos dei Greci, il progresso inteso come processo di miglioramento della società è stato cancellato dal mondo attuale e relegato tra le cose da studiare a tempo debito. Adesso la parola d'ordine è "emergenza" e tutto si fa in funzione dell'oggi, per salvare il salvabile, per rattoppare problemi senza fine di un mondo che non sa prevedere il proprio futuro. Forse perché un futuro non ci sarà.
La paura istintiva è stata cancellata dalla cultura. L'antico Fobos trasformato in "fobia": maniacale, ignobile, privo della dignità originaria e magari curabile. Ci siamo liberati di Fobos come di un fastidio sgradito, semplicemente cancellandolo dal linguaggio. E una cosa che non ha nome di fatto non esiste.
Tutto ciò è ricondotto dentro la categoria dalla paura razionale, la paura del noto, che ha una sua giustificazione ma che può essere anche fonte di piacere e divertimento. Il carattere "affrontabile" della paura, talmente affrontabile da permettere di convivere con essa senza grossi problemi, la rende persino una qualità ricercata, ma sempre con un margine di rischio, della cui entità siamo vagamente coscienti. Un rischio che è possibile accettare a seconda del nostro grado di temerarietà. Salire su un ottovolante, lanciarsi col paracadute o fare bungee jumping gettandosi da un ponte legati a una corda elastica, cimentarsi in un’arrampicata – durante il fascismo c’era anche il salto nel cerchio di fuoco – non sono solo prove di ardimento e perizia, di superamento della paura, razionalizzata e controllata grazie all’utilizzo di attrezzature idonee e misure di sicurezza: sono forme di un divertimento, cioè di un piacere prodotto dalla paura.
Altre volte, ancora, esso non è prodotto da un coinvolgimento fisico quanto dall’immaginazione, da un’elaborazione della fantasia. La lettura di romanzi d’orrore, la visione di film terrorizzanti o la narrazione di storie spaventose riducano il meccanismo della paura sul piano virtuale, con lo stesso immenso piacere. Questa volta reso ancor più gradevole dalla consapevolezza di non rischiare alcun pericolo, se non quello psicologico, in persone troppo influenzabili o emotive.
Nei bambini la capacità di separazione o “straniamento” dal contesto narrato, che permette di godere del piacere della paura, non è pienamente sviluppata e l’avvenimento è vissuto come reale, e dunque totalmente coinvolgente. Shock di questo genere possono avere anche conseguenze traumatiche indelebili.
Vivere con le paure del XXI secolo non è facile. Gli individui, sempre più soli o uniti in rapporti di coppia instabili, ora che le masse si sono risolte in moltitudini, hanno imparato a dominare le paure del passato. La paura della macchina, in particolare, ha lasciato il posto a una paura diffusa per i complessi e inconoscibili meccanismi della globalizzazione e dell’internazionalizzazione dell’economia. Non automatici o casuali, mossi da ingranaggi sofisticati e sentimenti, come i robot di Asimov che si rivoltano contro i loro creatori. Questi sono meccanismi ingenerati e controllati dall’uomo, ma da uomini senza nome e senza pietà, più pericolosi perché infidi e mossi dall’unica legge capace di regolare il mondo: la legge del profitto per il profitto.
Quella della globalizzazione è una paura strisciante, tanto invadente da non conoscere confini politici e sottrarsi, superandole, alle normative nazionali e locali. Viaggiando a livelli tanto alti da essere persino invisibili ai più, determinando le sorti della maggior parte dei cittadini del mondo, senza alcuna possibilità di controllo democratico. Perché la leadership della globalizzazione è sottratta alla tradizionale investitura dal basso, risponde a direttive e logiche che ci sfuggono e di cui comprendiamo, solo a tratti e in parte, il senso e le finalità. Le decisioni che la governano sono prese da un numero imprecisato di persone senza volto che agiscono senza neppure conoscersi e infinitesimale, frammentario e persino incerto contribuiscono a determinare la direzione dei grandi mutamenti nel loro complesso. Governati da forza umane soverchianti che hanno perduto ogni connotato di umanità, gli uomini del mondo globalizzato vivono un’esistenza senza punti di riferimento. E la buona politica, le regole e i legami affettivi sinceri sembrano solo un rifugio alla ricerca di conferme quotidiane che questo mondo non sa più offrire.

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