sabato 16 marzo 2013


Qualche riflessione sul Lavoro


di Jessy Simonini IV G

“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”
(Articolo 4, Costituzione della Repubblica Italiana)

Mi piacerebbe partire da qui. Da queste due frasi che sono forse l’essenza vera della nostra Costituzione, anzi dell’intera nostra Repubblica fondata, appunto, “sul lavoro”.
I costituenti sapevano piuttosto bene che cosa fosse necessario fare dopo vent’anni di fascismo: ricostruire in primo luogo un nuovo paradigma culturale, basato su parole e su concetti nuovi, su un lavoro che nulla ha a che fare con il corporativismo imposto dalla società fascista ma che è, al contrario, in grado di restituire dignità agli individui e alla società tutta. Speravano, i costituenti, che la nuova Italia nata dalle macerie del fascismo e della guerra, avesse come pilastro fondante il lavoro inteso come unico mezzo di emancipazione per milioni di cittadini, come unico strumento per raggiungere la libertà.
A settant’anni di distanza, le cose sono andate in modo diverso.
Nel 1970 fu introdotto il controverso Statuto dei lavoratori, che pone l’accento sulla dignità del lavoratore, sulla sua libertà d’opinione e di sciopero, garantendo tutele (o, secondo un vocabolario diverso, privilegi) ai lavoratori del nostro Paese. L’articolo 1, ad esempio, afferma che:

I lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge.

L’articolo 8, invece:

E’ fatto divieto al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore.

Lo Statuto dei lavoratori rappresenta dunque un’importantissima tutela per gli occupati del nostro Paese; si tratta di regole che stanno alla base della nostra civiltà, che stabiliscono diritti e doveri imprescindibili nelle relazioni fra datori di lavoro e dipendenti, regole che è impensabile, in un momento di acuta crisi come quella che stiamo vivendo, indebolire o addirittura abolire come è stato più volte paventato o proposto.
L’articolo 18, il quale prevede il reintegro dei lavoratori licenziati illegittimamente nelle unità produttive che hanno più di quindici dipendenti, non è che il simbolo di una battaglia di civiltà e di libertà. In quest’ultimo periodo è stato al centro del dibattito: da una parte, i suoi strenui difensori (sindacati, sinistre), dall’altra, chi è disposto a farne a meno (governo, destre). Ma quando parliamo di articolo 18 parliamo di una tutela che non può, in un paese civile, essere stralciata o abolita, perché i diritti e le tutele per i lavoratori vengono sempre prima di ogni beneficio economico ed è dunque sterile imbastire una discussione ideologica e senza risvolti pratici sul tema. Mentre stiamo qui ad esprimerci contro o a favore l’articolo 18, la disoccupazione giovanile è al 30%, l’assenza di una politica industriale corposa e strutturata sta facendo perdere terreno al nostro manifatturiero e quindi anche i tessuti produttivi più robusti si stanno indebolendo, la cassa integrazione straordinaria è spesso finita e i lavoratori vanno a casa. E’ notizia di questi giorni che l’Omsa di Faenza non chiuderà. Eppure cento donne che nella loro vita altro non han fatto che produrre calze si ritroveranno a casa, nel bel mezzo della crisi peggiore di sempre, con il mutuo e le bollette da pagare.
Al contrario, è necessario ripartire da una seria, condivisa riforma del mercato del lavoro. Le proposte all’apparenza più efficaci oggi sono due: il pacchetto proposto dal senatore democratico Pietro Ichino e quello, sempre proposto dalla sinistra, a firma Boeri-Nerozzi.
Ichino, che da anni vive sotto scorta per le minacce ricevute dalle Brigate Rosse, propone una riforma che, nel quadro di quella che viene definita flexicurity- unione fra flessibilità e sicurezza sociale- istituisca un contratto unico a tempo indeterminato per i lavoratori, con un periodo di prova di sei mesi e tutele crescenti nel tempo, rendendo però più facili i licenziamenti e abrogando parzialmente l’articolo 18. Si tratterebbe di una grande innovazione nel mercato del lavoro italiano, in grado di aumentare la flessibilità e di garantire più dinamicità al sistema produttivo, pur con meno diritti per i lavoratori dipendenti e con tutele più deboli. Il datore di lavoro potrebbe infatti licenziare liberamente il suo dipendente per un qualunque motivo economico-organizzativo, e inoltre non ci sarebbero limiti ai licenziamenti collettivi. Per i licenziati è prevista un’indennità di disoccupazione tra il 60%-90% erogata dall’Inps e dalle stesse imprese. Il tema appare piuttosto delicato, perché se da una parte Ichino spinge verso un sistema semplificato e innovativo, l’Italia non è la Danimarca e c’è bisogno di tutele più forti, soprattutto in un momento di crisi come quello che stiamo attraversando.
La riforma Boeri-Nerozzi, invece, pur provenendo da due esponenti dello stesso partito di Ichino, ha un’impronta radicalmente differente. Questo progetto di riforma prevede un Cui (un contratto unico di inserimento a tempo indeterminato) che per i neoassunti sostituisce i contratti a termine. Inizialmente non sono previste le tutele dell’articolo 18, che partono solo dopo tre anni dall’assunzione. Il dipendente che viene licenziato nei primi tre anni gode soltanto di un’indennità di disoccupazione che cresce nel tempo.
La complessità del tema e della situazione che stiamo attraversando impone una riflessione seria e ampia sul Lavoro e sui diritti dei lavoratori dipendenti. Una riflessione che deve essere fatta fuori da ogni recinto o barriera ideologica, senza preclusioni o totem. E’ innanzitutto necessario smetterla di parlare di questioni marginali come l’articolo 18 (è paradossale parlare di licenziamenti quando il vero problema è la mancanza di posti di lavoro) e bisogna invece ripartire dai contenuti e soprattutto da una grande riforma che tenga conto delle necessità delle imprese e dei dipendenti, facendo essenzialmente due cose: semplificare la giungla dei contratti precari e a progetto, verso la costituzione di un contratto unico inclusivo e in grado di garantire tutele sufficienti e, in secondo luogo, costruire nuova occupazione, soprattutto per le giovani generazioni, in settori strategici per lo sviluppo di domani, come green economy e cultura. Perché se muore il lavoro è la società stessa che si decompone e si frammenta.

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