Qualche riflessione sul Lavoro
di Jessy Simonini IV G
“La Repubblica riconosce a tutti
i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano
effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di
svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta,
un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o
spirituale della società”
(Articolo 4, Costituzione
della Repubblica Italiana)
Mi piacerebbe partire da qui. Da
queste due frasi che sono forse l’essenza vera della nostra
Costituzione, anzi dell’intera nostra Repubblica fondata, appunto,
“sul lavoro”.
I costituenti sapevano piuttosto
bene che cosa fosse necessario fare dopo vent’anni di fascismo:
ricostruire in primo luogo un nuovo paradigma culturale, basato su
parole e su concetti nuovi, su un lavoro che nulla ha a che fare con
il corporativismo imposto dalla società fascista ma che è, al
contrario, in grado di restituire dignità agli individui e alla
società tutta. Speravano, i costituenti, che la nuova Italia nata
dalle macerie del fascismo e della guerra, avesse come pilastro
fondante il lavoro inteso come unico mezzo di emancipazione per
milioni di cittadini, come unico strumento per raggiungere la
libertà.
A settant’anni di distanza, le
cose sono andate in modo diverso.
Nel 1970 fu introdotto il
controverso Statuto
dei lavoratori,
che pone l’accento sulla dignità del lavoratore, sulla sua libertà
d’opinione e di sciopero, garantendo tutele (o, secondo un
vocabolario diverso, privilegi) ai lavoratori del nostro Paese.
L’articolo 1, ad esempio, afferma che:
I
lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di
fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro
opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto
dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge.
L’articolo 8, invece:
E’ fatto
divieto al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione, come nel
corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare
indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose
o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini
della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore.
Lo Statuto
dei lavoratori
rappresenta dunque un’importantissima tutela per gli occupati del
nostro Paese; si tratta di regole che stanno alla base della nostra
civiltà, che stabiliscono diritti e doveri imprescindibili nelle
relazioni fra datori di lavoro e dipendenti, regole che è
impensabile, in un momento di acuta crisi come quella che stiamo
vivendo, indebolire o addirittura abolire come è stato più volte
paventato o proposto.
L’articolo 18, il quale prevede
il reintegro dei lavoratori licenziati illegittimamente nelle unità
produttive che hanno più di quindici dipendenti, non è che il
simbolo di una battaglia di civiltà e di libertà. In quest’ultimo
periodo è stato al centro del dibattito: da una parte, i suoi
strenui difensori (sindacati, sinistre), dall’altra, chi è
disposto a farne a meno (governo, destre). Ma quando parliamo di
articolo 18 parliamo di una tutela che non può, in un paese civile,
essere stralciata o abolita, perché i diritti e le tutele per i
lavoratori vengono sempre prima di ogni beneficio economico ed è
dunque sterile imbastire una discussione ideologica e senza risvolti
pratici sul tema. Mentre stiamo qui ad esprimerci contro o a favore
l’articolo 18, la disoccupazione giovanile è al 30%, l’assenza
di una politica industriale corposa e strutturata sta facendo perdere
terreno al nostro manifatturiero e quindi anche i tessuti produttivi
più robusti si stanno indebolendo, la cassa integrazione
straordinaria è spesso finita e i lavoratori vanno a casa. E’
notizia di questi giorni che l’Omsa di Faenza non chiuderà. Eppure
cento donne che nella loro vita altro non han fatto che produrre
calze si ritroveranno a casa, nel bel mezzo della crisi peggiore di
sempre, con il mutuo e le bollette da pagare.
Al contrario, è necessario
ripartire da una seria, condivisa riforma del mercato del lavoro. Le
proposte all’apparenza più efficaci oggi sono due: il pacchetto
proposto dal senatore democratico Pietro Ichino e quello, sempre
proposto dalla sinistra, a firma Boeri-Nerozzi.
Ichino, che da anni vive sotto
scorta per le minacce ricevute dalle Brigate Rosse, propone una
riforma che, nel quadro di quella che viene definita flexicurity-
unione fra flessibilità e sicurezza sociale- istituisca un contratto
unico a tempo indeterminato per i lavoratori, con un periodo di prova
di sei mesi e tutele crescenti nel tempo, rendendo però più facili
i licenziamenti e abrogando parzialmente l’articolo 18. Si
tratterebbe di una grande innovazione nel mercato del lavoro
italiano, in grado di aumentare la flessibilità e di garantire più
dinamicità al sistema produttivo, pur con meno diritti per i
lavoratori dipendenti e con tutele più deboli. Il datore di lavoro
potrebbe infatti licenziare liberamente il suo dipendente per un
qualunque motivo economico-organizzativo, e inoltre non ci sarebbero
limiti ai licenziamenti collettivi. Per i licenziati è prevista
un’indennità di disoccupazione tra il 60%-90% erogata dall’Inps
e dalle stesse imprese. Il tema appare piuttosto delicato, perché se
da una parte Ichino spinge verso un sistema semplificato e
innovativo, l’Italia non è la Danimarca e c’è bisogno di tutele
più forti, soprattutto in un momento di crisi come quello che stiamo
attraversando.
La riforma Boeri-Nerozzi, invece,
pur provenendo da due esponenti dello stesso partito di Ichino, ha
un’impronta radicalmente differente. Questo progetto di riforma
prevede un Cui (un contratto unico di inserimento a tempo
indeterminato) che per i neoassunti sostituisce i contratti a
termine. Inizialmente non sono previste le tutele dell’articolo 18,
che partono solo dopo tre anni dall’assunzione. Il dipendente che
viene licenziato nei primi tre anni gode soltanto di un’indennità
di disoccupazione che cresce nel tempo.
La
complessità del tema e della situazione che stiamo attraversando
impone una riflessione seria e ampia sul Lavoro e sui diritti dei
lavoratori dipendenti. Una riflessione che deve essere fatta fuori da
ogni recinto o barriera ideologica, senza preclusioni o totem. E’
innanzitutto necessario smetterla di parlare di questioni marginali
come l’articolo 18 (è paradossale parlare di licenziamenti quando
il vero problema è la mancanza di posti di lavoro) e bisogna invece
ripartire dai contenuti e soprattutto da una grande riforma che tenga
conto delle necessità delle imprese e dei dipendenti, facendo
essenzialmente due cose: semplificare la giungla dei contratti
precari e a progetto, verso la costituzione di un contratto unico
inclusivo e in grado di garantire tutele sufficienti e, in secondo
luogo, costruire nuova occupazione, soprattutto per le giovani
generazioni, in settori strategici per lo sviluppo di domani, come
green economy e cultura. Perché se muore il lavoro è la società
stessa che si decompone e si frammenta.
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