venerdì 15 marzo 2013


LE VECCHIETTE IN PIEDI

Per uno scontro generazionale sano ed equilibrato



di Anna Viceconti 


Nel marzo 2012 la disoccupazione nei giovani fra i 15 ed i 24 anni ha sfiorato il 36%. E’ un dato terrificante che dovrebbe fare incazzare noi, i nostri genitori e la nostra classe politica; eppure la notizia viene data con una sorta di rassegnazione all’inevitabile. La domanda invece sorge spontanea: come siamo arrivati a questo punto?
E’ la fine di un percorso lungo, iniziato intorno agli anni ’80 e segnato da alcuni dati e statistiche importanti. Nel 1997 viene introdotto per la prima volta nella legge italiana il contratto a tempo determinato, il cosiddetto co.co.co Nel 2003 viene approvata la legge Maroni/Biagi, che modifica significativamente il mercato del lavoro introducendo tutta una serie di simpatici contratti (lavoro occasionale, contratto a progetto, apprendistato, lavoro intermittente) e sostituisce il co.co.co con il co.co.pro…lo stesso tipo di contratto ma senza ferie, maternità, e nessun’altro tipo di protezione. In questo momento l’incidenza di contratti a termine in Italia è sette punti più alta rispetto alla media europea: il lavoro è poco, insicuro, non garantisce stabilità economica e conseguentemente non permette di costruire una famiglia o comprare una casa propria. E mentre cresce esponenzialmente il numero di questi ragazzi frustrati da un futuro che non c’è, cresce anche l’età media italiana: 44 anni contro i 41 europei. Cresce il numero di over 65 (il più alto in Europa), cresce l’età media dei nostri politici; quella del governo Monti è 63 anni.
Per trent’anni (e per carità non venite a dirmi che è demagogia o antipolitica, perché non c’è niente di più politico del nostro futuro) questo paese è stato governato da una gerontocrazia che ha contribuito in tutti i modi a ghettizzare i giovani. Da una parte, fornendo il comfort familiare di genitori economicamente più stabili; e dall’altra colpendo tutti gli organi che dovrebbero contribuire a migliorare il futuro di una nazione, cioè la scuola pubblica e la ricerca. Il risultato? Noi siamo più poveri dei nostri genitori, abbiamo più stimoli ma meno cultura e meno fiducia nelle istituzioni. Nessuno è stato capace di tramandarci gli ideali del favoloso ’68 (viene riportato in luce solo quando si parla di occupazione): siamo figli di Internet e degli anni ’90, siamo consapevoli di far parte di una comunità virtuale ma facciamo fatica ad organizzare movimenti di protesta che siano veri ed importanti, perché il lavoro precario punta all’isolamento del singolo.
In una situazione di crisi economica mondiale questi nodi dovrebbero venire al pettine; eppure si cerca in tutti i modi di evitare lo scontro. Quando un giornalista chiede a Susanna Camusso se è vero che una certa fascia di lavoratori tra i 50 ed i 60 è iperprotetta, mentre i giovani sono senza protezione sindacale, la presidente di CGIL risponde: “Io non vedo nessuna differenza di trattamento”. Dimenticando di dire che circa la metà degli iscritti al sindacato sono pensionati.
E quando Elsa Fornero dichiara con molta disinvoltura “Abbiamo abbassato le pensioni, ma l’abbiamo fatto per aiutare i giovani”, qualcuno dovrebbe ricordarsi di domandare: come si pensa di aiutarci tagliando le pensioni dei nostri genitori? Frasi come queste instillano il senso di colpa in una generazione, ed il risentimento in un’altra; eppure quelle due parole, “scontro generazionale”, sono considerate una specie di anatema. “Non vogliamo che questa riforma diventi uno scontro fra padri e figli”, dice responsabilmente il ministro. Ma se invece lo scontro fosse proprio ciò di cui abbiamo bisogno? I ragazzi di Occupy Wall Street non combattono solo contro la finanza sfrenata, ma anche contro la generazione che li ha portati in quel punto. Gli indignados spagnoli urlando “que se vayan todos” forse non parlavano solo di politici corrotti, ma anche dei loro genitori: lo scontro va risolto, non sublimato. La mia proposta, sia chiaro, non è spintonare le vecchiette o impedire loro di sedersi in autobus(vista la loro cattiveria avremmo noi la peggio). Semplicemente, penso che non usciremo mai da questa crisi se in Italia non succedono tre cose.
Primo: noi giovani dobbiamo renderci conto, pienamente e responsabilmente, dello spazio marginale in cui la società ci ha relegati e rifiutare questa solitudine. Dobbiamo imparare, poco per volta, ad organizzarci in movimenti che non devono parlare con un’unica voce, ma raccontare tutte le sfaccettature della nostra realtà. Alcuni esempi di questi movimenti ci sono già: oltre ad americani e spagnoli, non dimentichiamoci dei Draghi Ribelli e dell’Onda nata durante le proteste anti-Gelmini.
Secondo: la generazione dei nostri genitori, la generazione di cinquantenni e sessantenni che liquida i movimenti di protesta giovanile con “voi non c’eravate nel ‘77”, deve sedersi e riflettere un attimo. Com’è stato possibile arrivare dal ’68 agli anni ’80? Dall’immaginazione al potere alla Milano da bere? Forse da qualche parte nel processo avete sbagliato, perché il mondo che ci avete consegnato non è affatto migliore di quello che avevate ricevuto. Forse è il caso di imparare a comunicare con le nuove generazioni, di parlare e unirsi per scoprire che alla fine non si è affatto diversi: le conquiste civili e sociali degli anni Sessanta e Settanta si sono ottenute solo nel momento in cui padri e figli, lavoratori e studenti, hanno marciato insieme.
Terzo: la nostra classe politica deve inginocchiarsi, per quello che consentono protesi d’anca e artrosi, e dichiarare: è vero, abbiamo sbagliato tutto. Abbiamo voluto fare cassa senza sapere, senza capire che una nazione incapace di investire sui giovani è una nazione destinata a morire, è come “l’uomo in caduta libera da un palazzo di cinquanta piani che ad ogni piano pensa: fino a qui tutto bene”. E quando abbiamo capito che stavamo sbagliando, abbiamo continuato.
La terza cosa non succederà mai, certo. Ma se questa classe politica di allegri vecchietti non ci vuole lasciare e non vuole ammettere i suoi errori, forse è il caso che i giovani inizino a scendere in politica. Sta già succedendo in alcune città (vedi Massimo Zedda, sindaco di Cagliari, 35 anni; Cristina Tajani, 30 anni, assessore in giunta comunale a Milano; Matteo Lepore, 32 anni, assessore nella giunta comunale di Bologna, diploma del Galvani), ma non è mai abbastanza.
Una femminista degli anni Settanta, Gloria Steinam, diceva che le donne sarebbero diventate come gli uomini che volevano sposare. Forse noi dovremmo diventare come i politici che vorremmo votare.


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