LE VECCHIETTE IN PIEDI
Per uno scontro generazionale sano ed equilibrato
di Anna Viceconti
Nel marzo 2012 la
disoccupazione nei giovani fra i 15 ed i 24 anni ha sfiorato il 36%.
E’ un dato terrificante che dovrebbe fare incazzare noi, i nostri
genitori e la nostra classe politica; eppure la notizia viene data
con una sorta di rassegnazione all’inevitabile. La domanda invece
sorge spontanea: come siamo arrivati a questo punto?
E’ la fine di un
percorso lungo, iniziato intorno agli anni ’80 e segnato da alcuni
dati e statistiche importanti. Nel 1997 viene introdotto per la prima
volta nella legge italiana il contratto a tempo determinato, il
cosiddetto co.co.co Nel 2003 viene approvata la legge Maroni/Biagi,
che modifica significativamente il mercato del lavoro introducendo
tutta una serie di simpatici contratti (lavoro occasionale, contratto
a progetto, apprendistato, lavoro intermittente) e sostituisce il
co.co.co con il co.co.pro…lo stesso tipo di contratto ma senza
ferie, maternità, e nessun’altro tipo di protezione. In questo
momento l’incidenza di contratti a termine in Italia è sette punti
più alta rispetto alla media europea: il lavoro è poco, insicuro,
non garantisce stabilità economica e conseguentemente non permette
di costruire una famiglia o comprare una casa propria. E mentre
cresce esponenzialmente il numero di questi ragazzi frustrati da un
futuro che non c’è, cresce anche l’età media italiana: 44 anni
contro i 41 europei. Cresce il numero di over 65 (il più alto in
Europa), cresce l’età media dei nostri politici; quella del
governo Monti è 63 anni.
Per trent’anni (e
per
carità
non venite a dirmi che è demagogia o antipolitica, perché non c’è
niente di più politico del nostro futuro) questo paese è stato
governato da una gerontocrazia che ha contribuito in tutti i modi a
ghettizzare i giovani. Da una parte, fornendo il comfort familiare
di genitori economicamente più stabili; e dall’altra colpendo
tutti gli organi che dovrebbero contribuire a migliorare il futuro di
una nazione, cioè la scuola pubblica e la ricerca. Il risultato? Noi
siamo più poveri dei nostri genitori, abbiamo più stimoli ma meno
cultura e meno fiducia nelle istituzioni. Nessuno è stato capace di
tramandarci gli ideali del favoloso ’68 (viene riportato in luce
solo quando si parla di occupazione): siamo figli di Internet e degli
anni ’90, siamo consapevoli di far parte di una comunità virtuale
ma facciamo fatica ad organizzare movimenti di protesta che siano
veri ed importanti, perché il lavoro precario punta all’isolamento
del singolo.
In una situazione di
crisi economica mondiale questi nodi dovrebbero venire al pettine;
eppure si cerca in tutti i modi di evitare lo scontro. Quando un
giornalista chiede a Susanna Camusso se è vero che una certa fascia
di lavoratori tra i 50 ed i 60 è iperprotetta, mentre i giovani sono
senza protezione sindacale, la presidente di CGIL risponde: “Io non
vedo nessuna differenza di trattamento”. Dimenticando di dire che
circa la metà degli iscritti al sindacato sono pensionati.
E quando Elsa
Fornero dichiara con molta disinvoltura “Abbiamo abbassato le
pensioni, ma l’abbiamo fatto per aiutare i giovani”, qualcuno
dovrebbe ricordarsi di domandare: come
si pensa di aiutarci tagliando le pensioni dei nostri genitori? Frasi
come queste instillano il senso di colpa in una generazione, ed il
risentimento in un’altra; eppure quelle due parole, “scontro
generazionale”, sono considerate una specie di anatema. “Non
vogliamo che questa riforma diventi uno scontro fra padri e figli”,
dice responsabilmente il ministro. Ma se invece lo scontro fosse
proprio ciò di cui abbiamo bisogno? I ragazzi di Occupy Wall Street
non combattono solo contro la finanza sfrenata, ma anche contro la
generazione che li ha portati in quel punto. Gli indignados spagnoli
urlando “que se vayan todos” forse non parlavano solo di politici
corrotti, ma anche dei loro genitori: lo scontro va risolto, non
sublimato. La mia proposta, sia chiaro, non è spintonare le
vecchiette o impedire loro di sedersi in autobus(vista la loro
cattiveria avremmo noi la peggio). Semplicemente, penso che non
usciremo mai da questa crisi se in Italia non succedono tre cose.
Primo: noi giovani
dobbiamo renderci conto, pienamente e responsabilmente, dello spazio
marginale in cui la società ci ha relegati e rifiutare questa
solitudine. Dobbiamo imparare, poco per volta, ad organizzarci in
movimenti che non devono parlare con un’unica voce, ma raccontare
tutte le sfaccettature della nostra realtà. Alcuni esempi di questi
movimenti ci sono già: oltre ad americani e spagnoli, non
dimentichiamoci dei Draghi Ribelli e dell’Onda nata durante le
proteste anti-Gelmini.
Secondo: la
generazione dei nostri genitori, la generazione di cinquantenni e
sessantenni che liquida i movimenti di protesta giovanile con “voi
non c’eravate nel ‘77”, deve sedersi e riflettere un attimo.
Com’è stato possibile arrivare dal ’68 agli anni ’80?
Dall’immaginazione al potere alla Milano da bere? Forse da qualche
parte nel processo avete sbagliato, perché il mondo che ci avete
consegnato non è affatto migliore di quello che avevate ricevuto.
Forse è il caso di imparare a comunicare con le nuove generazioni,
di parlare e unirsi per scoprire che alla fine non si è affatto
diversi: le conquiste civili e sociali degli anni Sessanta e Settanta
si sono ottenute solo nel momento in cui padri e figli, lavoratori e
studenti, hanno marciato insieme.
Terzo: la nostra
classe politica deve inginocchiarsi, per quello che consentono
protesi d’anca e artrosi, e dichiarare: è vero, abbiamo sbagliato
tutto. Abbiamo voluto fare cassa senza sapere, senza capire che una
nazione incapace di investire sui giovani è una nazione destinata a
morire, è come “l’uomo in caduta libera da un palazzo di
cinquanta piani che ad ogni piano pensa: fino a qui tutto bene”. E
quando abbiamo capito che stavamo sbagliando, abbiamo continuato.
La terza cosa non
succederà mai, certo. Ma se questa classe politica di allegri
vecchietti non ci vuole lasciare e non vuole ammettere i suoi errori,
forse è il caso che i giovani inizino a scendere in politica. Sta
già succedendo in alcune città (vedi Massimo Zedda, sindaco di
Cagliari, 35 anni; Cristina Tajani, 30 anni, assessore in giunta
comunale a Milano; Matteo Lepore, 32 anni, assessore nella giunta
comunale di Bologna, diploma del Galvani), ma non è mai abbastanza.
Una
femminista degli anni Settanta, Gloria Steinam, diceva che le donne
sarebbero diventate come gli uomini che volevano sposare. Forse noi
dovremmo diventare come i politici che vorremmo votare.
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