“NO MAFIA”, PALERMO E’ COSA NOSTRA
di Laura Tramuto, 3C
Qui, sull’autostrada Palermo-Mazara del Vallo, l’azzurro del mare
e l’odore di pesce fresco inebriano i sensi e la costa sembra pian
piano scomparire dietro a Monte Pellegrino, alle spalle del quale
nasce la città.
Una città piena di controversie, di contrasti e di scontri aperti e,
allo stesso tempo, celati dietro fiumi di parole non dette o
pronunciate a metà, dietro sguardi languidi ed arresi, dietro
illusioni temporanee e proiettili risucchiati nel silenzio di un
quartiere di periferia.
Beh, Palermo non è solo questo. È cultura, è storia, è civiltà,
è popolo che cerca di farsi con le sue stesse mani.
Lo sapevano bene i magistrati che per anni hanno combattuto per
questa città, perché venisse finalmente ripulita dal marciume che
la mafia le ha gettato addosso, e lo sanno anche i palermitani di
adesso, ma non ci credono più.
Accosto con la mia auto. Il motivo per cui hanno smesso di crederci è
scritto qui, su questa stele: “23 MAGGIO 1992 – GIOVANNI FALCONE,
FRANCESCA MORVILLO, ROCCO DICILLO, ANTONIO MONTINARO, VITO SCHIFANI”.
L’asfalto dell’A29, all’altezza dello svincolo di Capaci sembra
raccontare ancora le luci di quella tarda mattinata, quando il
giudice Giovanni Falcone, insieme alla moglie e agli uomini della sua
scorta, da Roma stava rientrando in città, dove gli si prospettava
un tranquillo week-end in famiglia.
Cento metri di polvere in un attimo offuscarono sudore e lacrime di
tanti uomini di giustizia, come il capo della squadra mobile di
Palermo, Boris Giuliano, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il
magistrato Rocco Chinnici; così, all’interminabile lista delle
vittime di Cosa Nostra, si aggiunge anche il nome di Falcone.
Dando un veloce sguardo alla montagna, si nota con chiarezza
l’indelebile scritta blu “NO MAFIA”, impressa a caratteri
cubitali sull’edificio dal quale Giovanni Brusca ha deciso
l’istante della morte del giudice palermitano, premendo con
scettica ed incerta risolutezza il pulsante che avrebbe azionato il
detonatore. Lui stesso, ora pentito, racconta di quegli attimi di
indecisione e titubanza, culminati poi nella tragedia di una scelta
sbagliata, di un pensiero confuso, di un’azione indotta.
D’altronde, anche i picciotti sanno di essere parte di un
ingranaggio tremendo e spietato, dal quale difficilmente si scappa e
si ritorna indietro, se non dando la vita, ma non vedono nessun’altra
via d’uscita: tutt’attorno solo ignoranza, povertà, degrado,
droga, malavita, corruzione. Niente futuro, solo presente, istante
dopo istante.
Questa realtà era quotidianamente sotto gli occhi del Falcone
bambino, nato nel quartiere della Kalsa, in cui il degrado e la
delinquenza si fondono con la cultura storica che ha in sé origini
arabe. Lo si può vedere dai cortili delle case piccole e basse, dai
vicoletti stretti e angusti e dai colori terrosi che rivestono i
muri. È qui che nel 1939 nacque il magistrato che, dopo essere
venuto a contatto diretto con la criminalità organizzata, ebbe il
coraggio di discostarsi dal mondo a cui apparteneva, per combatterne
l’immoralità e la disonestà e proteggere la vera identità
palermitana.
Una lotta alla mafia durata una vita, una vita spesa in magistratura
fra atti d’inchiesta e interrogatori, indagini e confessioni di
pentiti, processi e condanne, una vita al servizio della legge e
della giustizia, segnata dalla rilevante partecipazione al Pool
Antimafia, dall’intenso dialogo con il pentito Tommaso Buscetta e
dall’istituzione del primo grande processo contro la mafia, il
cosiddetto Maxiprocesso che conta 360 condanne per 2665 anni
di carcere e che costituisce un grande successo storico per la lotta
a Cosa Nostra.
Il giudice Giovanni Falcone si trovò al proprio fianco un
collaboratore di fiducia, un collega tenace ed un amico dal valore
inestimabile: Paolo Borsellino. Stesse radici, stesse origini, stessi
ideali, stessa guerra.
Continuo il
mio percorso, svincolo via Belgio: attraverso la Fiera del
Mediterraneo fino a giungere a casa di Roberta, destinazione via
d’Amelio. È una strada senza uscita, lunga appena cento metri, con
corsie molto larghe e marciapiedi sconnessi. Fra i colori delle
macchine, mi sembra ancora di scorgere la Fiat 126 che, in una
qualsiasi domenica pomeriggio di luglio, venne fatta esplodere dal
Castello Utveggio.
19 luglio
1992 è la data che riporta la lapide su cui sono incisi i nomi di
PAOLO BORSELLINO, AGOSTINO CATALANO, EMANUELA LOI,
VINCENZO LI
MULI,
WALTER EDDIE COSINA
E CLAUDIO TRAINA,
caduti qui di fronte all’enorme edificio in cui abitava la madre
del magistrato palermitano.
Calpestando
questo marciapiede, sembra di sentire il boato assordante, provocato
dai cento chilogrammi di tritolo esplosi, la grida della folla
accorsa, le sirene spiegate della polizia: un rumore ovattato, che mi
riporta ad un’altra dimensione; eppure sembra tutto così
realistico, per quanto lontano. Palermo rivive ogni giorno quei
momenti, quegli istanti di panico e terrore, quei frangenti di
abbandono e resa.
«Convinciamoci
che siamo dei cadaveri che camminano»,
disse lo stesso Borsellino, poco prima di morire, avendo in bocca già
quell’amaro sapore di sconfitta.
A poche
settimane dalla morte di Falcone, la strage di via D’Amelio:
cos’altro ancora? Una Palermo in ginocchio, devastata dalle guerre
fra mafia e Stato, dalle stragi, dagli spari continui e mitraglianti,
veniva blindata e le forze militari invadevano ogni angolo della
città, per dare una risposta forte e decisa alla mafia, segno di
una nuova consapevolezza e di una riacquisita fiducia nei confronti
dello Stato.
Come
testimonia l’Albero, sotto l’abitazione di Giovanni Falcone in
via Notarbartolo, a lui dedicato e interamente ricoperto di fiori,
foto e scritte, i giovani di oggi ci credono nella battaglia contro
la mafia, pur rendendosi conto della complessità di questo fenomeno
umano e del fatto che è profondamente radicato nel tessuto sociale
della Sicilia più oscura e illegale; ma, come Falcone affermava, «La
mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i
fatti umani ha un inizio, e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna
rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e
che si può vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma
impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle
istituzioni».
La meschinità della mafia sta nel nascondere
la mente aristocratica, benestante e acculturata della politica
dietro alle braccia dell’ignoranza e della delinquenza, determinata
da una profonda povertà materiale e ideale.
Palermo ha tante facce: criminalità
organizzata, culture variegate, mentalità diverse, ma -di certo- la
Palermo in cui sono nata scrive la parola “mafia” in minuscolo.
Canzone di Fabrizio Moro, Pensa
“ Ci
sono stati uomini che hanno denunciato
il più corrotto dei
sistemi troppo spesso ignorato.Uomini o angeli mandati sulla
terra per combattere una guerradi faide e di famiglie sparse come tante bigliesu un isola di sangue che, fra tante meraviglie
fra limoni e fra conchiglie, massacra figli e figlie
di una generazione costretta a non guardare,a parlare a bassa voce, a spegnere la luce,a commentare in pace ogni pallottola nell'aria,ogni cadavere in un fosso.Ci sono stati uomini che […]
contro un'istituzione organizzata,
cosa nostra, cosa vostra, cos'è vostro?
è nostra la libertà di dire
che gli occhi sono fatti per guardare,
la bocca per parlare, le orecchie ascoltano non solo musica.
Ci sono stati uomini[…] consapevoli che le loro idee
sarebbero rimaste nei secoli come parole iperbole
intatte e reali come piccoli miracoli
idee di uguaglianza, idee di educazione
contro ogni uomo che eserciti oppressione,
contro ogni suo simile, contro chi è più debole,
contro chi sotterra la coscienza nel cemento.
Ci sono stati uomini che hanno continuato
nonostante intorno fosse tutto bruciato,
perché in fondo questa vita non ha significato
se hai paura di una bomba o di un fucile puntato.
Gli uomini passano e passa una canzone,
ma nessuno potrà fermare mai la convinzione
che la giustizia non è solo un'illusione “
hanno
lasciato un segno con coraggio e con impegno,
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