Derrick Rose tornerà a volare
di Cosimo Sarti
Ventiduemila
persone ammutolite nello stesso istante, un silenzio spaventoso allo
United Center di Chicago. E' caduto Derrick Rose, a un minuto dalla
fine della prima partita di playoff fra Bulls e 76ers. Rimane a terra
qualche minuto a bordo campo con quarantaquattromila occhi addosso,
la partita già decisa in favore della squadra di casa, poi si rialza
e sostenuto dai dottori zoppica fino allo spogliatoio mentre il
pubblico grida “MVP!”. Gridano perchè hanno paura che il loro
sogno svanisca nel nulla, perchè insieme a Rose zoppicano fuori dal
campo tutte le speranze di una stagione difficile, piena di
infortuni, in cui nonostante tutto si era arrivati primi e adesso si
partiva all'assalto del titolo, con tutta la squadra al completo e
una convincente vittoria all'esordio nei playoff. Nessuno conosce
l'entità dell'infortunio, ma tutti sanno, anche se non vogliono
crederci, che è grave. Derrick è uno ha giocato anche con due
ulcere, non sta per terra senza motivo così a lungo. Ma si sa, la
speranza è l'ultima a morire. Infatti muore in serata, quando arriva
la diagnosi ufficiale: rottura del crociato anteriore del ginocchio
sinistro, lontano dai campi per almeno sei mesi, rientro a metà
della prossima stagione. La cura di questo infortunio ha fatto molti
progressi negli ultimi anni, Chris Paul, Baron Davis e David West
sono i giocatori più famosi a tornare ad alto livello dopo
l'intervento. Solo che Rose è diverso da tutti gli altri, è
speciale, e forse non lo sarà mai più. Lui volava, era “too big,
too strong, too fast and just too good” per qualunque altro
giocatore, una forza fisica e un atletismo mai visti prima in un
playmaker, una specie di Magic Johnson dei nostri tempi, troppo
fisicamente superiore per quella posizione. Tornerà quindi, ma forse
non tornerà mai più a volare, non lascierà mai più intere difese
sul posto con le sue penetrazioni imprendibili, non schiaccerà più
sulla testa di nessuno, niente più tiri impossibili da ogni
angolazione. Sarà ancora un All-Star, magari continuerà a essere il
miglior playmaker del mondo, vincerà altri MVP forse, magari anche
dei titoli, ma non sarà più lo stesso D-Rose, capace di lasciare a
bocca aperta perfino Micheal Jordan in tribuna. Era il suo erede,
cresciuto a Chicago durante gli anni in cui MJ dominava l'NBA con i
suoi Bulls, era pronto a portare di nuovo alla vittoria la sua
squadra, dopo un decennio di delusioni e bassa classifica, dopo che
tutti i migliori giocatori avevano avuto paura di confrontarsi con il
mito di Jordan. Un confronto che all'inizio sembrava blasfemo, aveva
smesso di esserlo per i tifosi dei Bulls, che avevano trovato in quel
ragazzino taciturno e inespressivo colui che li avrebbe riportati a
vincere, volando a canestro, proprio come faceva Jordan. Non parla
molto Rose, ma con il suo esempio e il suo impegno ha sempre
trascinato i compagni e si è fatto apprezzare dai tifosi di ogni
squadra per la sua umiltà rispetto alle stelle NBA contemporanee,
per questo, oltre al gioco spettacolare, la sua maglia numero 1 è
stata la più venduta quest'anno.
Ci
rimangono solo tre anni di highlights di schiacciate, assist e tiri
impossibili, a meno che Derrick non faccia un'altra volta uno dei
suoi miracoli. Questa volta però sarà più difficile che fare la
miglior prestazione di sempre di un esordiente alla prima partita di
playoff: 36 punti e 11 assist, in casa dei campioni in carica di
Boston, nel 2009, un primo passo verso la leggenda. Sarà più
difficile che diventare il più giovane MVP della storia, quando
nessuno ci credeva tranne lui, che lo aveva annunciato a inizio
stagione con la celebre frase “why can't I be the MVP?”. Sarà
più difficile di qualunque buzzer-beater, tripla doppia o partita da
quaranta punti. Derrick però è speciale, per questo forse riuscirà
a sconfiggere anche le previsioni dei dottori e i limiti della
medicina; lo scopriremo l'anno prossimo, sperando che questo non sia
l'addio alle sue magie, ma solo un arrivederci, aspettando di vederlo
volare ancora.
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