venerdì 15 marzo 2013


Derrick Rose tornerà a volare


di Cosimo Sarti



Ventiduemila persone ammutolite nello stesso istante, un silenzio spaventoso allo United Center di Chicago. E' caduto Derrick Rose, a un minuto dalla fine della prima partita di playoff fra Bulls e 76ers. Rimane a terra qualche minuto a bordo campo con quarantaquattromila occhi addosso, la partita già decisa in favore della squadra di casa, poi si rialza e sostenuto dai dottori zoppica fino allo spogliatoio mentre il pubblico grida “MVP!”. Gridano perchè hanno paura che il loro sogno svanisca nel nulla, perchè insieme a Rose zoppicano fuori dal campo tutte le speranze di una stagione difficile, piena di infortuni, in cui nonostante tutto si era arrivati primi e adesso si partiva all'assalto del titolo, con tutta la squadra al completo e una convincente vittoria all'esordio nei playoff. Nessuno conosce l'entità dell'infortunio, ma tutti sanno, anche se non vogliono crederci, che è grave. Derrick è uno ha giocato anche con due ulcere, non sta per terra senza motivo così a lungo. Ma si sa, la speranza è l'ultima a morire. Infatti muore in serata, quando arriva la diagnosi ufficiale: rottura del crociato anteriore del ginocchio sinistro, lontano dai campi per almeno sei mesi, rientro a metà della prossima stagione. La cura di questo infortunio ha fatto molti progressi negli ultimi anni, Chris Paul, Baron Davis e David West sono i giocatori più famosi a tornare ad alto livello dopo l'intervento. Solo che Rose è diverso da tutti gli altri, è speciale, e forse non lo sarà mai più. Lui volava, era “too big, too strong, too fast and just too good” per qualunque altro giocatore, una forza fisica e un atletismo mai visti prima in un playmaker, una specie di Magic Johnson dei nostri tempi, troppo fisicamente superiore per quella posizione. Tornerà quindi, ma forse non tornerà mai più a volare, non lascierà mai più intere difese sul posto con le sue penetrazioni imprendibili, non schiaccerà più sulla testa di nessuno, niente più tiri impossibili da ogni angolazione. Sarà ancora un All-Star, magari continuerà a essere il miglior playmaker del mondo, vincerà altri MVP forse, magari anche dei titoli, ma non sarà più lo stesso D-Rose, capace di lasciare a bocca aperta perfino Micheal Jordan in tribuna. Era il suo erede, cresciuto a Chicago durante gli anni in cui MJ dominava l'NBA con i suoi Bulls, era pronto a portare di nuovo alla vittoria la sua squadra, dopo un decennio di delusioni e bassa classifica, dopo che tutti i migliori giocatori avevano avuto paura di confrontarsi con il mito di Jordan. Un confronto che all'inizio sembrava blasfemo, aveva smesso di esserlo per i tifosi dei Bulls, che avevano trovato in quel ragazzino taciturno e inespressivo colui che li avrebbe riportati a vincere, volando a canestro, proprio come faceva Jordan. Non parla molto Rose, ma con il suo esempio e il suo impegno ha sempre trascinato i compagni e si è fatto apprezzare dai tifosi di ogni squadra per la sua umiltà rispetto alle stelle NBA contemporanee, per questo, oltre al gioco spettacolare, la sua maglia numero 1 è stata la più venduta quest'anno.
Ci rimangono solo tre anni di highlights di schiacciate, assist e tiri impossibili, a meno che Derrick non faccia un'altra volta uno dei suoi miracoli. Questa volta però sarà più difficile che fare la miglior prestazione di sempre di un esordiente alla prima partita di playoff: 36 punti e 11 assist, in casa dei campioni in carica di Boston, nel 2009, un primo passo verso la leggenda. Sarà più difficile che diventare il più giovane MVP della storia, quando nessuno ci credeva tranne lui, che lo aveva annunciato a inizio stagione con la celebre frase “why can't I be the MVP?”. Sarà più difficile di qualunque buzzer-beater, tripla doppia o partita da quaranta punti. Derrick però è speciale, per questo forse riuscirà a sconfiggere anche le previsioni dei dottori e i limiti della medicina; lo scopriremo l'anno prossimo, sperando che questo non sia l'addio alle sue magie, ma solo un arrivederci, aspettando di vederlo volare ancora.



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