martedì 12 marzo 2013

C'era una volta l'archittetura


                           Urbanistica di Bologna 

 di Filippo Socini

 Urbanistica di Bologna – C’era una volta l’Architettura
Gianandrea Campora gustò lo spumante e volse lo sguardo verso la facciata di Palazzo Isolani, verso il portico e la corte: adesso, a sessantasei anni, si accorgeva di come la sua città fosse simile ad un salotto, con lunghi e accoglienti corridoi affrescati, caldi drappi alle finestre, avvolgenti scenografie rosso mattone, torri coronate e terrazze fiorite.
La perfetta urbanistica che integrava armoniosamente fra di loro le rovine etrusche, la pianta romana, i palazzi medievali, i cortili rinascimentali, le chiese barocche, i colonnati neoclassici, le decorazioni liberty, le merlature neogotiche, il cemento armato Novecentesco, creando così un comodo palcoscenico per le vite dei Bolognesi, rendeva la città una grande casa per i suoi abitanti.”
Francesco Salati
Bologna ha avuto una progettazione urbanistica che ha rasentato la perfezione per più di 2 millenni, e che si è interrotta solo a metà del Novecento.
Prima evidenza, che risale alla sua fondazione, è la sua posizione geografica, proprio nel punto in cui due fiumi (Reno e Savena) e un torrente (Aposa) si avvicinano fra loro scendendo dalle loro rispettive valli appenniniche fin nella grande Pianura. Tutte le maggiori città nacquero in corrispondenza di fiumi (Firenze=Arno, Roma=Tevere…), ma poche hanno avuto la possibilità di averne tre e di poterli sfruttare per la loro crescita economica quanto noi.
Infatti l’opera di canalizzazione dell’Aposa e del Reno permise di avere corsi d’acqua interamente navigabili, e altresì utilizzabili per il funzionamento di macchinari per la produzione di seta. Tutto era collegato, organico e integrato: in periferia i Bolognesi piantavano i gelsi sulle rive dei loro tre fiumi, in condizioni ottimali per le piante e per la crescita dei bachi da seta (purtroppo gli unici gelsi ancora in vita dal XVI secolo sono quelli dei giardini di Chiesa Nuova, in Via Murri); in centro l’acqua degli stessi fiumi serviva ad azionare i mulini da seta. Campagna e città interagivano e partecipavano al loro sviluppo economico.
Continuando ad analizzare l’ambiente urbano felsineo, mi soffermo sulla sua forma e sulle sue direttrici principali.
Partendo dalla pianta di origine romana, che si può intravedere ancora oggi nella croce fra Via Emilia (decumano) e Via Galliera (cardo), le nuove vie che sono state tracciate in prossimità di esse (Via Rizzoli, Via Indipendenza, e le Piazze Maggiore, Re Enzo, Nettuno), col tempo si sono armonizzate, con lente modifiche, fino a formare un immenso quadrivio al centro del Centro della Città, da cui è possibile prendere ogni direzione per raggiungere Rimini o Milano (Via Emilia), Ferrara o gli Appennini (Via Galliera/ d’Azeglio/ San Mamolo). Se siete in Piazza Maggiore e imboccate uno di questi quattro assi, potrete raggiungere pressoché tutte le città dell’Emilia Romagna camminando sempre in linea retta, senza mai esser costretti a cambiare direzione.
Spostandosi verso Sud parallelamente alla Via Emilia, si trova il secondo asse stradale per importanza, ma il primo per bellezza: è la Via Santo Stefano/Farini/Barberie/Sant’Isaia. Esso non è altro che l’appendice bolognese della Futa, che fuori porta Santo Stefano si chiama Via Murri e Via Toscana e che conduce a Firenze.
Dentro le mura ha subito numerosissime modifiche nel corso dei secoli, che non hanno fatto altro che renderla più vivibile ed elegante, impeccabile dal punto di vista urbanistico. La più recente di queste ricostruzioni, escludendo la più moderna Galleria Cavour di Palazzo Sassoli, è avvenuta circa 150 anni fa, agli albori del Regno d’Italia. Erano anni in cui si tentava di rendere la neonata nazione uno stato moderno, anche dal punto di vista architettonico.
Per questo Bologna si vide protagonista delle opere di Coriolano Monti e di Giuseppe Mengoni (lo stesso architetto della Galleria Vittorio Emanuele a Milano), e, nello specifico della zona di Via Farini, si prese la rivoluzionaria iniziativa di creare una successione di giardini su esempio di quelli parigini del Palais Royal o di Place des Vosges.
Vennero così ridimensionate le cubature di alcuni splendidi palazzi (e questo è l’unico peccato) fra Via de’ Poeti e Via de’ Toschi (Palazzi Labella e Benati demoliti, Palazzo Guidotti Magnani “sezionato” in facciata), al fine di allargare Via Farini e di dar vita alle splendide piazze-giardino Cavour (di Coriolano Monti e Pietro Ceri, 1860-70) e Minghetti (di Ernesto Balbo Bertone Conte di Sambuy, 1893, anche progettista dei Giardini Margherita), e alla Via Garibaldi per opera del Conte Grabinski, proprietario di Palazzo Ranuzzi Baciocchi (ora Tribunale di Bologna). Fortunatamente il “taglio” dei palazzi che fu operato per ampliare Via Farini risulta oggi solo un inconveniente marginale, che può essere giustificato dagli splendidi esempi di stile che fiorirono nella città in questi anni a cavallo fra Ottocento e Novecento: la Cassa di Risparmio (di Mengoni), la Banca d’Italia (di Cipolla), il Palazzo Cavazza (di Mengoni), la Stazione Centrale, per non parlare delle innovazioni architettoniche legate, oltre che alle figure di Monti, Cipolla, Zannoni, Balbo e Mengoni, anche all’ancor più celebre Alfonso Rubbiani.
Va aggiunto che alcune distruzioni, sebbene assurde e deprecabili, hanno tuttavia dato la possibilità di aprire nuove pagine nella storia dell’Architettura bolognese e di creare qualcosa di innovativo. Oltre a quella degli edifici nobili in Via Farini, a Bologna ce ne fu un’altra, di dimensioni molto maggiori: la demolizione delle mura. Col fine di “ammodernare”, si distrusse uno degli elementi più rappresentativi della nostra città. Però, se valutata adesso con imparzialità, non possiamo non accorgerci che la loro assenza ha salvato il centro storico dall’isolamento, e i viali hanno integrato il “dentro e il fuori”, facendo sì che non ci sia interruzione ideale fra Via Castiglione bassa e alta, fra Via d’Azeglio e Via Murri, fra Via Saragozza dentro e fuori porta, fra Via Santo Stefano e Via Murri, fra Viale Dante e Via Leandro Alberti.
Terzo asse stradale per importanza è quello che conduce sempre a Firenze, ma passando da Ovest: Piazza San Domenico/Via Marsili/Via Urbana/Via Saragozza/Via Porrettana.
Questa strada ospita quello che ritengo il più alto esempio di “organismo urbano”: il portico di San Luca.
Il suo aspetto concettuale è paragonabile nel mondo, a mio parere, solo a poche costruzioni, fra cui il rettilineo lungo 10 chilometri che dal Louvre porta senza interruzione all’Arc de la Défense, passando attraverso Tuileries, Place de la Concorde, Champs Elysées e Arc de Triomphe. Paradigma della perfezione urbanistica.
Però questi esempi non riescono più a essere riprodotti dopo la metà del secolo scorso. Perché? Cos’è cambiato dopo la Guerra?
L’idea che l’Architettura si sia spenta a metà del Novecento, lasciando il posto ad un suo surrogato globalizzato ed estrinseco, è stata sostenuta e resa pubblica dall’Architetto Rem Koolhaas, che ha parlato di “monetizzazione dell’architettura”.
Il critico Vittorio Sgarbi ha spiegato con un esempio concreto la situazione italiana, che 50 anni fa vide la fine della sua Architettura a causa dell’illogica espansione delle città: “L’ultima architettura classica costruita prima del sacco d’Italia: è la Villa Volpi di Misurata (1960), a Sabaudia, fatta dall’architetto Tommaso Buzzi, oggi dimenticato, che però l’ultima volta, guardando non verso la Grecia ma guardando Sabaudia, come se fosse un simbolo del mondo antico che sta dall’altra parte, verso la Sardegna, verso la Francia, ha costruito questa architettura che tiene insieme i modelli dell’architettura dei templi greci e quelli di Palladio. Dopo questa l’Architettura finisce, sparisce.”
Philippe Daverio, partendo dalle idee di Koolhaas, ha spiegato il fenomeno contemporaneo con queste parole: “Un’unica architettura che si compra nel bazar mondiale dell’architettura, in modo che comunque, chiunque voglia, possa avere un immobile preso di qua o preso di là, che è sempre lo stesso. Chiunque vuole avrà il suo ponte di Calatrava da mettere a Venezia, il suo museino di Zaha Hadid da mettere a Roma, o il suo grattacielo di Daniel Libeskind da mettere a Milano. Non è sempre stato così: c’era una volta l’Architettura.”
Il problema dell’urbanistica e dell’architettura moderna è che non è più integrata, bensì globalizzata.
Ciò che si costruisce ora non è pensato e realizzato a misura del luogo in cui verrà edificato, ma è semplicemente un modulo standard che può essere costruito in qualsiasi luogo del mondo senza distinzione contingente.
Questo potrebbe apparire positivo in quanto potrebbe sembrare che si dia all’architettura uno status di perfezione assoluta, che quindi è adeguata a New York come a Roma; purtroppo molto raramente è così, poiché nella maggior parte dei casi l’architettura moderna assume solo l’aspetto commerciale e delocalizzato, e porta l’opera a trasformarsi in prodotto, l’architetto a trasformarsi in marchio.
Da un punto di vista emotivo l’architettura contemporanea è splendida, perché imponente, alta, slanciata, colorata, brillante, stravagante, non direttamente collegata al suo utilizzo finale. Questo è piacevole alla vista e alla mente più delle rigorose architetture che sono state create dall’inizio dell’umanità fino a 50 anni fa. Ovviamente anche nell’antichità sono stati costruiti edifici con l’unico scopo di allietare la vista (pensiamo al periodo barocco), ma erano casi più isolati e non sistematicamente collegati come adesso.
Ma ora nessuna opera è più pensata in rapporto al suo posizionamento finale, bensì in funzione della riconoscibilità dell’opera stessa. L’architetto moderno non vende un progetto, vende un modulo, un prodotto, un marchio. L’architetto antico perfezionava, adeguava il progetto al luogo, alla cultura, alle persone, ai materiali locali, alla finalità, al momento storico, cercando sempre il connubio perfetto fra apparenza ed utilità, fra estetica ed adeguatezza, fra bellezza ed armonia.
E così 2500 anni fa ad Atene fu edificato il primo teatro stabile della storia, appoggiato alle pendici della collina dell’Acropoli, in modo tale che la modifica umana diventasse parte del paesaggio. Il teatro di Dioniso è ancora lì, eternamente attuale perché parte di un organismo paesaggistico, mai obsoleto perché pensato a misura dell’uomo e del suo territorio. Anche la nostra città resiste da 2000 anni, addossata alle colline e affacciata sulla pianura, come un immenso teatro capace di ospitare mezzo milione di cittadini e di farli sentire protetti da una struttura urbana frutto dell’ormai perduta ricerca di equilibrio, misura e proporzione dell’antichità.
C’era una volta l’Architettura. (filo.soch@teletu.it)
Ottobre 2011
Fonti:
Rem Koolhaas, “Il dominio dello YES” ne Il Corriere della Sera http://archiviostorico.corriere.it/2008/luglio/23/dominio_dello_YES_co_9_080723120.shtml
Giovanni Pellinghelli del Monticello, “Aemilia Ars 1898-1903”, in Giornate nazionali ADSI (2011)
Daniele Pascale Guidotti Magnani,“Bologna post-unitaria: ridisegnare la città.”, in Giornate nazionali ADSI
Philippe Daverio, “Passepartout; Architettura Fascista Non Fascista” http://www.youtube.com/watch?v=fFWF5tvTqC8
Antonio Alberto Clemente, Università di Pescara

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