Urbanistica di Bologna
di Filippo Socini
Urbanistica di Bologna – C’era una volta l’Architettura
“Gianandrea Campora gustò lo spumante e volse lo sguardo verso
la facciata di Palazzo Isolani, verso il portico e la corte: adesso,
a sessantasei anni, si accorgeva di come la sua città fosse simile
ad un salotto, con lunghi e accoglienti corridoi affrescati, caldi
drappi alle finestre, avvolgenti scenografie rosso mattone, torri
coronate e terrazze fiorite.
La perfetta urbanistica che integrava armoniosamente fra di loro
le rovine etrusche, la pianta romana, i palazzi medievali, i cortili
rinascimentali, le chiese barocche, i colonnati neoclassici, le
decorazioni liberty, le merlature neogotiche, il cemento armato
Novecentesco, creando così un comodo palcoscenico per le vite dei
Bolognesi, rendeva la città una grande casa per i suoi abitanti.”
Francesco Salati
Bologna ha avuto una progettazione urbanistica che ha rasentato la
perfezione per più di 2 millenni, e che si è interrotta solo a metà
del Novecento.
Prima evidenza, che risale alla sua fondazione, è la sua posizione
geografica, proprio nel punto in cui due fiumi (Reno e Savena) e un
torrente (Aposa) si avvicinano fra loro scendendo dalle loro
rispettive valli appenniniche fin nella grande Pianura. Tutte le
maggiori città nacquero in corrispondenza di fiumi (Firenze=Arno,
Roma=Tevere…), ma poche hanno avuto la possibilità di averne tre e
di poterli sfruttare per la loro crescita economica quanto noi.
Infatti l’opera di canalizzazione dell’Aposa e del Reno permise
di avere corsi d’acqua interamente navigabili, e altresì
utilizzabili per il funzionamento di macchinari per la produzione di
seta. Tutto era collegato, organico e integrato: in periferia i
Bolognesi piantavano i gelsi sulle rive dei loro tre fiumi, in
condizioni ottimali per le piante e per la crescita dei bachi da seta
(purtroppo gli unici gelsi ancora in vita dal XVI secolo sono quelli
dei giardini di Chiesa Nuova, in Via Murri); in centro l’acqua
degli stessi fiumi serviva ad azionare i mulini da seta. Campagna e
città interagivano e partecipavano al loro sviluppo economico.
Continuando ad analizzare l’ambiente urbano felsineo, mi soffermo
sulla sua forma e sulle sue direttrici principali.
Partendo dalla pianta di origine romana, che si può intravedere
ancora oggi nella croce fra Via Emilia (decumano) e Via Galliera
(cardo), le nuove vie che sono state tracciate in prossimità di esse
(Via Rizzoli, Via Indipendenza, e le Piazze Maggiore, Re Enzo,
Nettuno), col tempo si sono armonizzate, con lente modifiche, fino a
formare un immenso quadrivio al centro del Centro della Città, da
cui è possibile prendere ogni direzione per raggiungere Rimini o
Milano (Via Emilia), Ferrara o gli Appennini (Via Galliera/
d’Azeglio/ San Mamolo). Se siete in Piazza Maggiore e imboccate uno
di questi quattro assi, potrete raggiungere pressoché tutte le città
dell’Emilia Romagna camminando sempre in linea retta, senza mai
esser costretti a cambiare direzione.
Spostandosi verso Sud parallelamente alla Via Emilia, si trova il
secondo asse stradale per importanza, ma il primo per bellezza: è la
Via Santo Stefano/Farini/Barberie/Sant’Isaia. Esso non è altro che
l’appendice bolognese della Futa, che fuori porta Santo Stefano si
chiama Via Murri e Via Toscana e che conduce a Firenze.
Dentro le mura ha subito numerosissime modifiche nel corso dei
secoli, che non hanno fatto altro che renderla più vivibile ed
elegante, impeccabile dal punto di vista urbanistico. La più recente
di queste ricostruzioni, escludendo la più moderna Galleria Cavour
di Palazzo Sassoli, è avvenuta circa 150 anni fa, agli albori del
Regno d’Italia. Erano anni in cui si tentava di rendere la neonata
nazione uno stato moderno, anche dal punto di vista architettonico.
Per questo Bologna si vide protagonista delle opere di Coriolano
Monti e di Giuseppe Mengoni (lo stesso architetto della Galleria
Vittorio Emanuele a Milano), e, nello specifico della zona di Via
Farini, si prese la rivoluzionaria iniziativa di creare una
successione di giardini su esempio di quelli parigini del Palais
Royal o di Place des Vosges.
Vennero così ridimensionate le cubature di alcuni splendidi palazzi
(e questo è l’unico peccato) fra Via de’ Poeti e Via de’
Toschi (Palazzi Labella e Benati demoliti, Palazzo Guidotti Magnani
“sezionato” in facciata), al fine di allargare Via Farini e di
dar vita alle splendide piazze-giardino Cavour (di Coriolano Monti e
Pietro Ceri, 1860-70) e Minghetti (di Ernesto Balbo Bertone Conte di
Sambuy, 1893, anche progettista dei Giardini Margherita), e alla Via
Garibaldi per opera del Conte Grabinski, proprietario di Palazzo
Ranuzzi Baciocchi (ora Tribunale di Bologna). Fortunatamente il
“taglio” dei palazzi che fu operato per ampliare Via Farini
risulta oggi solo un inconveniente marginale, che può essere
giustificato dagli splendidi esempi di stile che fiorirono nella
città in questi anni a cavallo fra Ottocento e Novecento: la Cassa
di Risparmio (di Mengoni), la Banca d’Italia (di Cipolla), il
Palazzo Cavazza (di Mengoni), la Stazione Centrale, per non parlare
delle innovazioni architettoniche legate, oltre che alle figure di
Monti, Cipolla, Zannoni, Balbo e Mengoni, anche all’ancor più
celebre Alfonso Rubbiani.
Va aggiunto che alcune distruzioni, sebbene assurde e deprecabili,
hanno tuttavia dato la possibilità di aprire nuove pagine nella
storia dell’Architettura bolognese e di creare qualcosa di
innovativo. Oltre a quella degli edifici nobili in Via Farini, a
Bologna ce ne fu un’altra, di dimensioni molto maggiori: la
demolizione delle mura. Col fine di “ammodernare”, si distrusse
uno degli elementi più rappresentativi della nostra città. Però,
se valutata adesso con imparzialità, non possiamo non accorgerci che
la loro assenza ha salvato il centro storico dall’isolamento, e i
viali hanno integrato il “dentro e il fuori”, facendo sì che non
ci sia interruzione ideale fra Via Castiglione bassa e alta, fra Via
d’Azeglio e Via Murri, fra Via Saragozza dentro e fuori porta, fra
Via Santo Stefano e Via Murri, fra Viale Dante e Via Leandro Alberti.
Terzo asse stradale per importanza è quello che conduce sempre a
Firenze, ma passando da Ovest: Piazza San Domenico/Via Marsili/Via
Urbana/Via Saragozza/Via Porrettana.
Questa strada ospita quello che ritengo il più alto esempio di
“organismo urbano”: il portico di San Luca.
Il suo aspetto concettuale è paragonabile nel mondo, a mio parere,
solo a poche costruzioni, fra cui il rettilineo lungo 10 chilometri
che dal Louvre porta senza interruzione all’Arc de la Défense,
passando attraverso Tuileries, Place de la Concorde, Champs Elysées
e Arc de Triomphe. Paradigma della perfezione urbanistica.
Però questi esempi non riescono più a essere riprodotti dopo la
metà del secolo scorso. Perché? Cos’è cambiato dopo la Guerra?
L’idea che l’Architettura si sia spenta a metà del Novecento,
lasciando il posto ad un suo surrogato globalizzato ed estrinseco, è
stata sostenuta e resa pubblica dall’Architetto Rem Koolhaas, che
ha parlato di “monetizzazione dell’architettura”.
Il critico Vittorio Sgarbi ha spiegato con un esempio concreto la
situazione italiana, che 50 anni fa vide la fine della sua
Architettura a causa dell’illogica espansione delle città:
“L’ultima architettura classica costruita prima del sacco
d’Italia: è la Villa Volpi di Misurata (1960), a Sabaudia, fatta
dall’architetto Tommaso Buzzi, oggi dimenticato, che però l’ultima
volta, guardando non verso la Grecia ma guardando Sabaudia, come se
fosse un simbolo del mondo antico che sta dall’altra parte, verso
la Sardegna, verso la Francia, ha costruito questa architettura che
tiene insieme i modelli dell’architettura dei templi greci e quelli
di Palladio. Dopo questa l’Architettura finisce, sparisce.”
Philippe Daverio, partendo dalle idee di Koolhaas, ha spiegato il
fenomeno contemporaneo con queste parole: “Un’unica architettura
che si compra nel bazar mondiale dell’architettura, in modo che
comunque, chiunque voglia, possa avere un immobile preso di qua o
preso di là, che è sempre lo stesso. Chiunque vuole avrà il suo
ponte di Calatrava da mettere a Venezia, il suo museino di Zaha Hadid
da mettere a Roma, o il suo grattacielo di Daniel Libeskind da
mettere a Milano. Non è sempre stato così: c’era una volta
l’Architettura.”
Il problema dell’urbanistica e dell’architettura moderna è che
non è più integrata, bensì globalizzata.
Ciò che si costruisce ora non è pensato e realizzato a misura del
luogo in cui verrà edificato, ma è semplicemente un modulo standard
che può essere costruito in qualsiasi luogo del mondo senza
distinzione contingente.
Questo potrebbe apparire positivo in quanto potrebbe sembrare che si
dia all’architettura uno status di perfezione assoluta, che
quindi è adeguata a New York come a Roma; purtroppo molto raramente
è così, poiché nella maggior parte dei casi l’architettura
moderna assume solo l’aspetto commerciale e delocalizzato, e
porta l’opera a trasformarsi in prodotto,
l’architetto a trasformarsi in marchio.
Da un punto di vista emotivo l’architettura contemporanea è
splendida, perché imponente, alta, slanciata, colorata, brillante,
stravagante, non direttamente collegata al suo utilizzo finale.
Questo è piacevole alla vista e alla mente più delle rigorose
architetture che sono state create dall’inizio dell’umanità fino
a 50 anni fa. Ovviamente anche nell’antichità sono stati costruiti
edifici con l’unico scopo di allietare la vista (pensiamo al
periodo barocco), ma erano casi più isolati e non sistematicamente
collegati come adesso.
Ma ora nessuna opera è più pensata in rapporto al suo
posizionamento finale, bensì in funzione della riconoscibilità
dell’opera stessa. L’architetto moderno non vende un progetto,
vende un modulo, un prodotto, un marchio. L’architetto antico
perfezionava, adeguava il progetto al luogo, alla cultura, alle
persone, ai materiali locali, alla finalità, al momento storico,
cercando sempre il connubio perfetto fra apparenza ed utilità, fra
estetica ed adeguatezza, fra bellezza ed armonia.
E così 2500 anni fa ad Atene fu edificato il primo teatro stabile
della storia, appoggiato alle pendici della collina dell’Acropoli,
in modo tale che la modifica umana diventasse parte del paesaggio. Il
teatro di Dioniso è ancora lì, eternamente attuale perché parte di
un organismo paesaggistico, mai obsoleto perché pensato a misura
dell’uomo e del suo territorio. Anche la nostra città resiste da
2000 anni, addossata alle colline e affacciata sulla pianura, come un
immenso teatro capace di ospitare mezzo milione di cittadini e di
farli sentire protetti da una struttura urbana frutto dell’ormai
perduta ricerca di equilibrio, misura e proporzione dell’antichità.
C’era una volta l’Architettura.
(filo.soch@teletu.it)
Ottobre 2011
Fonti:
Rem Koolhaas, “Il dominio dello YES” ne Il Corriere
della Sera
http://archiviostorico.corriere.it/2008/luglio/23/dominio_dello_YES_co_9_080723120.shtml
Giovanni Pellinghelli del Monticello, “Aemilia Ars
1898-1903”, in Giornate nazionali ADSI (2011)
Daniele Pascale Guidotti Magnani,“Bologna
post-unitaria: ridisegnare la città.”, in
Giornate nazionali ADSI
Philippe Daverio, “Passepartout; Architettura Fascista
Non Fascista” http://www.youtube.com/watch?v=fFWF5tvTqC8
Antonio Alberto Clemente, Università di Pescara
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