domenica 17 marzo 2013



                           Utopia


di Claudia Ansaloni

 Eravamo cento nel battaglione Totengeschichte. Durante gli allenamenti ci muovevamo a cerchi, intonando nenie ben ritmate e senza alcuna polifonia di fondo. I nostri passi solcavano la neve alta fino al ginocchio con la stessa cadenza con cui mesi dopo aravano i campi; ci avevano abituati a camminare a piedi nudi fra le stoppie e a pestare i prati nei temporali estivi ingrassati dai gelsi e dai lombrichi. Così, con la maturità, passavamo periodi discontinui nell’arma, tra i cicli di lezione e le festività dello stato. Ricordo quell’età con dolcezza e malinconia.

La scuola si spostava di mese in mese per tutta l’Europa. Lo stato a quel tempo godeva della floridità dei suoi primi giorni di vita. Ci spostavamo dalle aule fredde degli antichi monasteri alle rovine di ferro delle fabbriche. Quando ce n’era la possibilità, il nostro gruppo si mescolava con altri gruppi che circolavano in quelle regioni e organizzavamo insieme le lezioni. Per tredici anni le ragazze viaggiavano separate, ma poi, compiuti i quattordici, ci mescolavamo, avendo seguito un’educazione dai modi diversi ma con gli stessi obiettivi. Da quel momento si iniziava ad abitare con frequenza nelle città, che si popolavano dei nostri lamenti, dei nostri sogni e delle nostre scorribande. Quelli che una volta erano i musei postmoderni, bianche balene arenate sul cemento, erano stati vuotati e adibiti a discoteche, nei quali, dopo i diciassette anni, potevamo ballare e celebrare la notte. Gli oggetti d’arte erano tornati agli ambienti che li avevano incubati, palazzi, soffitte, giardini, le esedre scure delle cappelle di famiglia nelle chiese, i balconi aperti sui colli. Tutto, del resto, era stato strappato alla proprietà privata ed ripensato perché il nostro occhio se ne potesse accrescere, alimentare. Sin da quando entravamo nel percorso di educazione voluto dallo stato infatti, prima, cioè, che noi nascessimo, dovevamo connaturarci ai luoghi evocativi della storia dell’Europa, in modo che essa fosse sempre palpitante, scalciante di vita. Dovevamo studiare all’aria aperta, conoscere i boschi delle battaglie centenarie, battere con scrupolo i confini passati dei fiumi, fiutare il prurito dell’aria nordica, e sorseggiare i liquori dell’afa meridionale. E soffiare sui libri delle biblioteche secolari, ripassare angosciati, senza poter eppure evitare di distrarci, sotto la luce nelle cattedrali, poter scambiare aneddoti ed esperienze con classi di ogni cultura nazionale ed età, sperimentare per necessità le lingue, ci rendeva partecipi di un’esperienza eccellente di studio comune a tutti i giovani europei. Le materie di base erano sette: matematica, musica, fisica, biologia – e un particolare rilievo era posto alla genetica -, storia, letteratura e retorica. La storiain particolare, e questo fu un aspetto cardinale per la solidità stessa dello stato, faceva confluire i rami dello spirito e della tecnica in un unico fusto, cosicchè contemporaneamente dissertavamo sui filosofi e dissezionavamo l’innesco della polvere da sparo. Infatti, lo stato si reggeva sull’unione di due moti del carattere europeo, l’ingegno pratico e l’amore contemplativo, che qualche vecchio spocchioso voleva separati, ma che lo stato vedeva funzionanti come due timpani ai lati di una testa. Nella letteratura, inebriante era lo spazio dedicato alle parole religiose, specialmente quando capitava di ascoltarle sul riflusso di una spiaggia o nel chiacchiericcio serale dei grilli l’estate; leggevamo la Bibbia integralmente e tutti i miti pagani, nonché qualunque brano coranico ci consigliassero i nostri compagni musulmani. Della retorica poi, erano indispensabili gli anni della grammatica greca e di quella latina, e l’analisi filologica dei testi classici. Il senso della misura ti segnava la vita, come un epitafio.
Nel frattempo marciavamo, imparavamo a condividere le tende e ad armare le barche.
Noi ragazzi a diciotto anni iniziavamo a prestare servizio nell’esercito, le ragazze avevano ricevuto invece già sporadici addestramenti paramilitari, e da allora il loro contributo nel corpo diveniva volontario. Piuttosto, erano indirizzate a curare la diplomazia tra le nazioni, ed anche fuori dall’Europa. Della loro abilità e finezza, così curate dalla loro formazione, ne godevano le relazioni dell’Alleanza Boreale e gli equilibri con gli altri popoli del mondo. Allo stesso modo, anche noi dovevamo essere in grado di rinfrescare in ogni momento i tavoli assembleari con la nostra presenza, portando acume e prospettive brillanti. Questo chiedeva lo stato da noi, che maturassimo completi.

Ma poi avvenne quell’episodio che non dimenticherò mai, e che mi tranciò l’esistenza come un mietitrebbia passa un topolino. Mi ritrovavo dunque impegnato, appena ventenne, in una missione politica che doveva placare le inquietanti ombre di una sedizione, che veniva dal basso, da quelle anime grezze che lo stato aveva scartato. Esse erano i nostri schiavi, uomini stupidi e insensibili, che svolgevano compiti ripetitivi o di contatto col denaro - le pratiche burocratiche, il commercio e l’imprenditoria: mentre noi cercavamo l’oro più vero, loro fin da adolescenti si erano rivelati tartufi di quella razza. Erano una massa lercia, brulicante e in continua riproduzione. Mi avevano dunque convocato a una riunione del partito, dove discutere sul da farsi.
Si trovava sul relitto si un transatlantico infossato tra le dune di un lungomare vuoto e bellissimo. Lontano, la linea blu del mare inscuriva sul giallo da una parte e sul celeste dall’altra. Il sole era così alto che non potevo vederlo. Dopo una prima discussione, prendevamo una pausa sul ponte imbiancato di luce. E tutto era gala, tutto era grazia e bellezza, io nella mia lunga divisa nera, col teschio che mi rideva sopra la fronte, e i bicchieri che risuonavano vetro, le onde rosse dei vini, le mie palpebre che si rilassavano nella calma piatta – e quel mare là in fondo, apollineo e fosco.
Ebbene, lungo il mare c’era una ferrovia.
Ad un certo punto risvegliammo i nostri cannoni presso la plancia, quando il treno tagliò l’orizzonte. Vidi degli uomini in quella stringa nera fumante, battere le mani fuori dalle loro sbarre, udii qualcosa come un urlo, ma non più forte del vento sui bicchieri. Puntarono i cannoni, e quando il treno ci fu davanti spararono. La striscia incendiata sfrecciò lungo il mare, mentre le donne ridevano come angeli, e gli uomini levavano i calici.
Mai vidi una cosa più crudele e più bella.

La guerra poi dei neri d’Africa si mescolò alla nostra, con l’orrore che ora porterò al camposanto.




Nessun commento:

Posta un commento