Utopia
di Claudia Ansaloni
Eravamo cento nel battaglione Totengeschichte. Durante gli
allenamenti ci muovevamo a cerchi, intonando nenie ben ritmate e
senza alcuna polifonia di fondo. I nostri passi solcavano la neve
alta fino al ginocchio con la stessa cadenza con cui mesi dopo
aravano i campi; ci avevano abituati a camminare a piedi nudi fra le
stoppie e a pestare i prati nei temporali estivi ingrassati dai gelsi
e dai lombrichi. Così, con la maturità, passavamo periodi
discontinui nell’arma, tra i cicli di lezione e le festività dello
stato. Ricordo quell’età con dolcezza e malinconia.
La scuola si spostava di mese in mese per tutta l’Europa. Lo stato
a quel tempo godeva della floridità dei suoi primi giorni di vita.
Ci spostavamo dalle aule fredde degli antichi monasteri alle rovine
di ferro delle fabbriche. Quando ce n’era la possibilità, il
nostro gruppo si mescolava con altri gruppi che circolavano in quelle
regioni e organizzavamo insieme le lezioni. Per tredici anni le
ragazze viaggiavano separate, ma poi, compiuti i quattordici, ci
mescolavamo, avendo seguito un’educazione dai modi diversi ma con
gli stessi obiettivi. Da quel momento si iniziava ad abitare con
frequenza nelle città, che si popolavano dei nostri lamenti, dei
nostri sogni e delle nostre scorribande. Quelli che una volta erano i
musei postmoderni, bianche balene arenate sul cemento, erano stati
vuotati e adibiti a discoteche, nei quali, dopo i diciassette anni,
potevamo ballare e celebrare la notte. Gli oggetti d’arte erano
tornati agli ambienti che li avevano incubati, palazzi, soffitte,
giardini, le esedre scure delle cappelle di famiglia nelle chiese, i
balconi aperti sui colli. Tutto, del resto, era stato strappato alla
proprietà privata ed ripensato perché il nostro occhio se ne
potesse accrescere, alimentare. Sin da quando entravamo nel percorso
di educazione voluto dallo stato infatti, prima, cioè, che noi
nascessimo, dovevamo connaturarci ai luoghi evocativi della storia
dell’Europa, in modo che essa fosse sempre palpitante, scalciante
di vita. Dovevamo studiare all’aria aperta, conoscere i boschi
delle battaglie centenarie, battere con scrupolo i confini passati
dei fiumi, fiutare il prurito dell’aria nordica, e sorseggiare i
liquori dell’afa meridionale. E soffiare sui libri delle
biblioteche secolari, ripassare angosciati, senza poter eppure
evitare di distrarci, sotto la luce nelle cattedrali, poter
scambiare aneddoti ed esperienze con classi di ogni cultura nazionale
ed età, sperimentare per necessità le lingue, ci rendeva partecipi
di un’esperienza eccellente di studio comune a tutti i giovani
europei. Le materie di base erano sette: matematica, musica, fisica,
biologia – e un particolare rilievo era posto alla genetica -,
storia, letteratura e retorica. La storiain particolare, e questo fu
un aspetto cardinale per la solidità stessa dello stato, faceva
confluire i rami dello spirito e della tecnica in un unico fusto,
cosicchè contemporaneamente dissertavamo sui filosofi e
dissezionavamo l’innesco della polvere da sparo. Infatti, lo stato
si reggeva sull’unione di due moti del carattere europeo, l’ingegno
pratico e l’amore contemplativo, che qualche vecchio spocchioso
voleva separati, ma che lo stato vedeva funzionanti come due timpani
ai lati di una testa. Nella letteratura, inebriante era lo spazio
dedicato alle parole religiose, specialmente quando capitava di
ascoltarle sul riflusso di una spiaggia o nel chiacchiericcio serale
dei grilli l’estate; leggevamo la Bibbia integralmente e tutti i
miti pagani, nonché qualunque brano coranico ci consigliassero i
nostri compagni musulmani. Della retorica poi, erano indispensabili
gli anni della grammatica greca e di quella latina, e l’analisi
filologica dei testi classici. Il senso della misura ti segnava la
vita, come un epitafio.
Nel frattempo marciavamo, imparavamo a condividere le tende e ad
armare le barche.
Noi ragazzi a diciotto anni iniziavamo a prestare servizio
nell’esercito, le ragazze avevano ricevuto invece già sporadici
addestramenti paramilitari, e da allora il loro contributo nel corpo
diveniva volontario. Piuttosto, erano indirizzate a curare la
diplomazia tra le nazioni, ed anche fuori dall’Europa. Della loro
abilità e finezza, così curate dalla loro formazione, ne godevano
le relazioni dell’Alleanza Boreale e gli equilibri con gli altri
popoli del mondo. Allo stesso modo, anche noi dovevamo essere in
grado di rinfrescare in ogni momento i tavoli assembleari con la
nostra presenza, portando acume e prospettive brillanti. Questo
chiedeva lo stato da noi, che maturassimo completi.
Ma poi avvenne quell’episodio che non dimenticherò mai, e che mi
tranciò l’esistenza come un mietitrebbia passa un topolino. Mi
ritrovavo dunque impegnato, appena ventenne, in una missione
politica che doveva placare le inquietanti ombre di una sedizione,
che veniva dal basso, da quelle anime grezze che lo stato aveva
scartato. Esse erano i nostri schiavi, uomini stupidi e insensibili,
che svolgevano compiti ripetitivi o di contatto col denaro - le
pratiche burocratiche, il commercio e l’imprenditoria: mentre noi
cercavamo l’oro più vero, loro fin da adolescenti si erano
rivelati tartufi di quella razza. Erano una massa lercia,
brulicante e in continua riproduzione. Mi avevano dunque convocato a
una riunione del partito, dove discutere sul da farsi.
Si trovava sul relitto si un transatlantico infossato tra le dune di
un lungomare vuoto e bellissimo. Lontano, la linea blu del mare
inscuriva sul giallo da una parte e sul celeste dall’altra. Il sole
era così alto che non potevo vederlo. Dopo una prima discussione,
prendevamo una pausa sul ponte imbiancato di luce. E tutto era gala,
tutto era grazia e bellezza, io nella mia lunga divisa nera, col
teschio che mi rideva sopra la fronte, e i bicchieri che risuonavano
vetro, le onde rosse dei vini, le mie palpebre che si rilassavano
nella calma piatta – e quel mare là in fondo, apollineo e fosco.
Ebbene, lungo il mare c’era una ferrovia.
Ad un certo punto risvegliammo i nostri cannoni presso la plancia,
quando il treno tagliò l’orizzonte. Vidi degli uomini in quella
stringa nera fumante, battere le mani fuori dalle loro sbarre, udii
qualcosa come un urlo, ma non più forte del vento sui bicchieri.
Puntarono i cannoni, e quando il treno ci fu davanti spararono. La
striscia incendiata sfrecciò lungo il mare, mentre le donne ridevano
come angeli, e gli uomini levavano i calici.
Mai vidi una cosa più crudele e più bella.
La guerra poi dei neri d’Africa si mescolò alla nostra, con
l’orrore che ora porterò al camposanto.
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