Paolo e Francesca:un amore puro, ma immaturo.
di Maria Visconti, II F
Bello rileggere i versi
del Canto V della Divina Commedia, tra i più alti e memorabili
dell’Inferno e della Letteratura. Ancora più bello quando
rileggerli è riviverli, per le forti emozioni che sanno richiamare
alla memoria. Ma soprattutto bello riscoprirli poi di recente, alla
luce di un’interpretazione inaudita, che rimescola tutto quanto.
Le tesi del filosofo e
critico letterario Massimo Cacciari, infatti, hanno gettato per me
nuova luce riguardo alla storia di Paolo e Francesca, i due giovani
cognati che si trovarono a innamorarsi senza però potersi amare, e
il cui amore, quando scoperto, li portò ad un’unica, violenta
morte.
Appare quantomai ingiusto
tutto ciò, poiché è chiaro che i tratti di questo amore erano
stati innocenti, puri e dolcissimi (“soli eravamo, e sanza alcun
sospetto” -dice Francesca- quando “questi, che mai da me
non fia diviso,/la bocca mi baciò tutto tremante”) e neppure,
nel quadro che ne dipinge Dante, vi è segno alcuno di volgarità
nella stessa persona di Francesca, che anzi sembra dotata di tutte le
caratteristiche proprie dell’eleganza, della gentilezza, della
cortesia.
Ma allora perché Dante
li avrebbe immaginati all’Inferno? Perché proprio tra i
lussuriosi, peccatori carnali quando, per tali “dolci sospiri”
essi sembrano davvero meritare l’eterna gioia del Paradiso? Dante
fu forse spietato, ingiusto, invidioso. Non crede questo Cacciari, ed
è su questo nodo irrisolto ch’egli interviene con la propria
originale interpretazione del canto, basata su due concetti
fondamentali: l’Amor infans e l’Amor inordinatus.
Il sentimento dei due in vita si era rivelato immaturo, incapace cioè
di autocoscienza e autodeterminazione, come un infante che non sappia
comunicare la sua interiorità, tantomeno esserne pienamente
consapevole o gestirla in modo coerente.
Lo dimostra infatti il
nervoso stato di tensione dell’ultima scena, rotto solo dal sorgere
di stupore misto a sgomento che improvvisamente “scolorocci il
viso” durante la lettura della storia di Lancillotto e Ginevra
e in particolare “un punto fu quel che ci vinse”, cioè
“Quando leggemmo il disiato riso esser basciato da cotanto
amante”. Ed è notevole che nell’intero Canto Paolo non
proferisca una sola parola, non una, nonostante la richiesta di
Dante:“Mentre che l’uno spirto [Francesca] questo
disse,/l’altro piangea”, sopraffatto dal dolore della tragica
vicenda. La condotta in vita fu improvvisata, impreparata; e ora gli
manca il coraggio e la forza d’animo per prendere coscienza e
narrare.
Paolo e Francesca
impersonano dunque tutto un universo culturale che Dante distacca per
sempre da sé, non senza attraversare un profondo smarrimento: “E
caddi come corpo morto cade” non implica infatti un semplice
svenimento, bensì un tragico coinvolgimento, che confessa
chiaramente che nulla di quanto narrato nel Canto è estraneo al
vissuto di Dante.
Il punto, quindi, è un
altro: quello che è sottoposto a condanna in questo episodio è un
mondo letterario, certo corrente nell’etica cortese del
Due-Trecento come in quella classica, ma ancorato a quell’idea di
amore fatale a cui l’uomo soggiace senza possibilità di difesa,
quasi per una magica forza potente ed esterna, o una concreta
divinità, che aveva determinato l’uomo per secoli.
Ora, in netta cesura con
la tradizione precedente, Dante tenta di oltrepassare un modo di
intendere l’uomo –e l’amore, che dell’uomo è passione
rivelatrice- fondandone un altro, su una concezione totalmente
differente, cioè che la dignità dell’uomo deriva dalla suprema
libertà del proprio arbitrio, unito ad un fine metafisico che
oltrepassa la stessa natura umana.
E questo si chiarifica
ben oltre, non certo qui: “Onde, poniam che di necessitate/
surga ogne amor che dentro a voi s’accende, /di ritenerlo è in
voi la podestate” (Purgatorio, XVIII)
Il viaggio di Dante, si
capisce, porta un po’ più lontano: egli è pellegrino destinato
a un’altra piaggia; pertanto decide consapevolmente di
rivolgere la propria poesia e la vita stessa a un’altra tematica,
l’unica che riteneva in grado di condurlo ad uno stato della
felicità, caratterizzato da un piacere catastematico, in opposizione
alla bufera emotiva, fluttuante, incostante, che violentemente
nell’Inferno ancora trascina i due amanti.
E non si dà voce nel
Canto a ottusi giudizi morali, che qui –e in Dante, in generale-
non hanno davvero ragion d’essere: la differenza si trova piuttosto
nella diversa concezione d’amore, che sta nella scelta e
nella consapevolezza, che trasformano naturalmente uno stile di vita,
ora coerente all’intenzione, dotato di progetto e dedizione.
Di più: il modello dell’
“Amor ch’a nullo amato amar perdona” pone vincoli
all’amore libero, non consentendo a chi è amato di non riamare a
sua volta, come vittima di un ricatto, di una perversa necessità. A
questo Dante sembra preferire quello della caritas, l’amore
di ispirazione cristiana, omnicomprensivo e disinteressato. Libero,
così, di compiere la propria scelta -foss’anche un dono, un
sacrificio- senza che questa implichi necessariamente un ritorno,
secondo la logica inaudita e rivoluzionaria dell’azione ablativa e
volontaria, ora sì libera e svincolata dal resto.
Il secondo concetto
proposto da Cacciari poi, l’Amor inordinatus, vede in quello
di Paolo e Francesca un amore non ordinato rispetto al
contesto in cui si inserisce, che –per quanto ostile- è pur sempre
da tenere in considerazione. I due avrebbero forse dovuto aver meglio
presente la relazione tra quello che era il sentimento da una parte
e, dall’altra, la società, con tutte le sue rigide regole sociali
e del tutto impreparata ad accoglierlo. Un altro fattore che l’Amor
inordinatus non considera affatto è il sublime. Si rivela misero
e limitato, in realtà, perché non orientato ad una conoscenza
ulteriore che sia occasione per l’animo di fare la sua strada, di
crescere ed elevarsi (per Dante, la conoscenza di Dio).
Il
partner non sia dunque da ricercare nel compagno prossimo, il più
vicino o simile fra tutti, ma nel medium angelico, che si fa percorso
esso stesso, via verso le cose celesti, come annuncio e promessa di
beatitudine. E che la Beatrice dantesca rimanga accanto al poeta in
vita terrena o no poco importa, anzi è questo il significato ultimo
del desiderio e della mancanza, nella poetica di Dante: che la
tensione verso l’altro diventi tensione interiore, ascesi
dell’animo. Perché amarsi non sia soltanto guardarsi l’un
l’altro, ma guardare insieme nella stessa direzione.
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