mercoledì 13 marzo 2013


Paolo e Francesca:un amore puro, ma immaturo.


di Maria Visconti, II F


Bello rileggere i versi del Canto V della Divina Commedia, tra i più alti e memorabili dell’Inferno e della Letteratura. Ancora più bello quando rileggerli è riviverli, per le forti emozioni che sanno richiamare alla memoria. Ma soprattutto bello riscoprirli poi di recente, alla luce di un’interpretazione inaudita, che rimescola tutto quanto.

Le tesi del filosofo e critico letterario Massimo Cacciari, infatti, hanno gettato per me nuova luce riguardo alla storia di Paolo e Francesca, i due giovani cognati che si trovarono a innamorarsi senza però potersi amare, e il cui amore, quando scoperto, li portò ad un’unica, violenta morte.
Appare quantomai ingiusto tutto ciò, poiché è chiaro che i tratti di questo amore erano stati innocenti, puri e dolcissimi (“soli eravamo, e sanza alcun sospetto” -dice Francesca- quando “questi, che mai da me non fia diviso,/la bocca mi baciò tutto tremante”) e neppure, nel quadro che ne dipinge Dante, vi è segno alcuno di volgarità nella stessa persona di Francesca, che anzi sembra dotata di tutte le caratteristiche proprie dell’eleganza, della gentilezza, della cortesia.
Ma allora perché Dante li avrebbe immaginati all’Inferno? Perché proprio tra i lussuriosi, peccatori carnali quando, per tali “dolci sospiri” essi sembrano davvero meritare l’eterna gioia del Paradiso? Dante fu forse spietato, ingiusto, invidioso. Non crede questo Cacciari, ed è su questo nodo irrisolto ch’egli interviene con la propria originale interpretazione del canto, basata su due concetti fondamentali: l’Amor infans e l’Amor inordinatus. Il sentimento dei due in vita si era rivelato immaturo, incapace cioè di autocoscienza e autodeterminazione, come un infante che non sappia comunicare la sua interiorità, tantomeno esserne pienamente consapevole o gestirla in modo coerente.
Lo dimostra infatti il nervoso stato di tensione dell’ultima scena, rotto solo dal sorgere di stupore misto a sgomento che improvvisamente “scolorocci il viso” durante la lettura della storia di Lancillotto e Ginevra e in particolare “un punto fu quel che ci vinse”, cioè “Quando leggemmo il disiato riso esser basciato da cotanto amante”. Ed è notevole che nell’intero Canto Paolo non proferisca una sola parola, non una, nonostante la richiesta di Dante:“Mentre che l’uno spirto [Francesca] questo disse,/l’altro piangea”, sopraffatto dal dolore della tragica vicenda. La condotta in vita fu improvvisata, impreparata; e ora gli manca il coraggio e la forza d’animo per prendere coscienza e narrare.
Paolo e Francesca impersonano dunque tutto un universo culturale che Dante distacca per sempre da sé, non senza attraversare un profondo smarrimento: “E caddi come corpo morto cade” non implica infatti un semplice svenimento, bensì un tragico coinvolgimento, che confessa chiaramente che nulla di quanto narrato nel Canto è estraneo al vissuto di Dante.
Il punto, quindi, è un altro: quello che è sottoposto a condanna in questo episodio è un mondo letterario, certo corrente nell’etica cortese del Due-Trecento come in quella classica, ma ancorato a quell’idea di amore fatale a cui l’uomo soggiace senza possibilità di difesa, quasi per una magica forza potente ed esterna, o una concreta divinità, che aveva determinato l’uomo per secoli.
Ora, in netta cesura con la tradizione precedente, Dante tenta di oltrepassare un modo di intendere l’uomo –e l’amore, che dell’uomo è passione rivelatrice- fondandone un altro, su una concezione totalmente differente, cioè che la dignità dell’uomo deriva dalla suprema libertà del proprio arbitrio, unito ad un fine metafisico che oltrepassa la stessa natura umana.
E questo si chiarifica ben oltre, non certo qui: “Onde, poniam che di necessitate/ surga ogne amor che dentro a voi s’accende, /di ritenerlo è in voi la podestate” (Purgatorio, XVIII)
Il viaggio di Dante, si capisce, porta un po’ più lontano: egli è pellegrino destinato a un’altra piaggia; pertanto decide consapevolmente di rivolgere la propria poesia e la vita stessa a un’altra tematica, l’unica che riteneva in grado di condurlo ad uno stato della felicità, caratterizzato da un piacere catastematico, in opposizione alla bufera emotiva, fluttuante, incostante, che violentemente nell’Inferno ancora trascina i due amanti.
E non si dà voce nel Canto a ottusi giudizi morali, che qui –e in Dante, in generale- non hanno davvero ragion d’essere: la differenza si trova piuttosto nella diversa concezione d’amore, che sta nella scelta e nella consapevolezza, che trasformano naturalmente uno stile di vita, ora coerente all’intenzione, dotato di progetto e dedizione.
Di più: il modello dell’ “Amor ch’a nullo amato amar perdona” pone vincoli all’amore libero, non consentendo a chi è amato di non riamare a sua volta, come vittima di un ricatto, di una perversa necessità. A questo Dante sembra preferire quello della caritas, l’amore di ispirazione cristiana, omnicomprensivo e disinteressato. Libero, così, di compiere la propria scelta -foss’anche un dono, un sacrificio- senza che questa implichi necessariamente un ritorno, secondo la logica inaudita e rivoluzionaria dell’azione ablativa e volontaria, ora sì libera e svincolata dal resto.

Il secondo concetto proposto da Cacciari poi, l’Amor inordinatus, vede in quello di Paolo e Francesca un amore non ordinato rispetto al contesto in cui si inserisce, che –per quanto ostile- è pur sempre da tenere in considerazione. I due avrebbero forse dovuto aver meglio presente la relazione tra quello che era il sentimento da una parte e, dall’altra, la società, con tutte le sue rigide regole sociali e del tutto impreparata ad accoglierlo. Un altro fattore che l’Amor inordinatus non considera affatto è il sublime. Si rivela misero e limitato, in realtà, perché non orientato ad una conoscenza ulteriore che sia occasione per l’animo di fare la sua strada, di crescere ed elevarsi (per Dante, la conoscenza di Dio).
Il partner non sia dunque da ricercare nel compagno prossimo, il più vicino o simile fra tutti, ma nel medium angelico, che si fa percorso esso stesso, via verso le cose celesti, come annuncio e promessa di beatitudine. E che la Beatrice dantesca rimanga accanto al poeta in vita terrena o no poco importa, anzi è questo il significato ultimo del desiderio e della mancanza, nella poetica di Dante: che la tensione verso l’altro diventi tensione interiore, ascesi dell’animo. Perché amarsi non sia soltanto guardarsi l’un l’altro, ma guardare insieme nella stessa direzione.

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