domenica 24 febbraio 2013

Diario. Prima pagina. Sul Galvani


Diario. Prima pagina. Sul Galvani.

Claudia Ansaloni, 3^F

Il mio primo quaderno di appunti risale al dicembre 2008: quindi, facendo i conti, avevo appena iniziato il ginnasio. A questo punto mi sento obbligata a spennellarvi in due tratti l’immagine di  uno dei luoghi che maggiormente saranno teatro delle mie vicende: l’edificio scolastico, il Glorioso Istituto, il Liceo Ginnasio Statale Luigi Galvani. Nonostante tutta la mia sincerissima e devotissima venerazione per Galvani, dopo aver scoperto che seviziava rane con giochini elettrici, un po’ ti si sgonfia tutto. Cioè, che so, “Liceo Panteon” a questo punto poteva essere adeguato.
Ciò non toglie che Galvani fu un innovatore e un mago moderno, nonché, immancabilmente, un bolognese.
Comunque, tornando alla scuola: il numero civico 38 di Via Castiglione è un lungo serpentone di colonne che si snoda tra la chiesa di Santa Lucia, una costruzione massiccia di pietra e mattoni bruniti, e l’angolo con via Cartoleria, dove sta incassato sotto la sua tettoia di vetro il teatro Duse, e all’incrocio con la quale si innalza il torresotto di Via Castiglione. Oltre la torre, attraversato il suo arco a mandorla che troneggia sulla strada, ci sono, in ordine, una squisita gelateria dagli interni raffinati, quindi lo studentesco “Caffè degli Artisti” e una buona pizzeria, benchè segnalata dalla non troppo fantasiosa insegna “O sole mio”.  Ma a questo punto abbiamo quasi raggiunto porta Castiglione, la fortificazione residua delle mura trecentesche che svetta sui viali di circonvalazione.
Tornando invece, rispetto alla scuola, dall’altra parte della via - una via contorta e chiaroscura, angusta tra i suoi capitelli aristocratici – troviamo altri due luoghi molto significativi, anche se non immediatamente, ai fini della mia narrazione.
Per prima, proprio di fronte al sagrato di Santa Lucia, la vetrina a botte di un negozio dall’entrata nascosta, poiché aperta sul cortile del palazzo. Il negozio è la libreria di occultismo “Ibis”. Vende per lo più testi di magia, filosofie orientali e miti antichi, nonché di autori misconosciuti, esperti in  cabala, psicologia analitica e iconografia. Il locale ha sempre esercitato su di me un fascino irresistibile perchè, ben lontano dallo spacciare materiale da ciarlatani, al contrario apre una finestra su un mondo olistico e dimenticato, proprio in faccia al Galvani, dove, in fondo, tali tradizioni si studiano. Poi, vicino all’incrocio con l’ottocentesca Via Farini, ecco il dimesso dispaccio dei Pakistani, altrimenti detti “Paki” o “Pako”, più familiarmente “i Cioccolata”. La comunità Pakistana è ben nota ai giovani bolognesi per la facilitazione di quegli indispensabili acquisti notturni che gli sfaticati bottegai italiani, chiudendo per ora di cena, ostacolano. Ma quest’ultimo luogo farà comparsa nella nostra storia solo molto, molto più avanti.
Ora corriamo sotto gli acuti portici della via, dove il mattino l’azzurro cenere dell’alba, all’uscita da scuola l’ocra brillante, il rosso la sera, si proiettano in arcate continue sui pavimenti, ora in salita, ora in discesa, intervallati dalle ombre delle colonne, queste peculiari per ogni portone; dove alle otto d’inverno, e la notte sempre, si gonfiano bolle arancio scuro dalle lanterne sospese, dando origine a quei calderoni di luce che non possono che ricordare il fuoco in cui a Lascaux si concepivano le pitture.
Infine ti trovi di nuovo sotto il cielo. Ecco l’acciottolato della Chiesa, e poi, ancora, il crepidoma del Galvani. Alzi lo sguardo: ci sono il suo colonnato solenne e poi il suo corpo vero e proprio, severo e color zuppa inglese. Gli ordini di finestre sono squadrati, stile scarno-neoclassico, tinti di carminio dalle tende. E’un edificio serioso, un po’grave , belloccio. Arguisci che le sue fondamenta siano antiche, per lo meno Settecentesche, con quel tono freddo; ma fidati, non riusciresti mai a raccapezzartici con la storia della sua gestazione, neppure fossi un Philipe Daverio. 
L’isolato ha preso forma e carattere dalle esigenze dei Gesuiti nel Cinquecento, il cui progetto didattico fu anche l’embrione del futuro Liceo; fu poi imborghesito e tirato a lucido con la venuta di Napoleone di città. L’istituzione statale invece è dop del 1860, modello piemontese, di quando la politica nostrana aveva ancora buone intenzioni. Le lezioni allora si tenevano nei locali dell’Ospedale della Morte, quello che ora è il notoriamente allegro, animato “Museo” del Galvani.
Inoltre, la prima scoperta del  futuro habitat scolastico tutti i Galvanini la fanno che fuori è buio. Gli Open Day, quando gli istituti superiori si aprono ai ragazzi di terza media e alle loro famiglie, e che costituiscono una sorta di “fiera scolastica” cittadina, in genere si tengono a Dicembre, a partire dalle cinque del pomeriggio, quando un blu elettrico è ormai calato sulle tegole di Bologna.
 Il primo impatto è quello con un luogo dai locali ampi, austeri, un po’vuoti, dai soffitti alti cinque metri e talvolta scrostati, dalle finestre immense e coperte da tessuti pesanti, dalle viste malinconiche sui colli dai laboratori del terzo piano. Ci sono troppe scale, e soprattutto sono troppo lunghe, di alcune non si contano i gradini, altre hanno rampe che ti paiono verticali; quella vasta elicoidale che parte dalla cancellata presso la Presidenza ti inquieta con la sua balaustra nervosa e nera, ed ha gli scalini così consumati da risultare sdrucciolevoli. Poi, ai piani, dove zoomi immediatamente  sulle tanto agognate macchinette da merenderi e dove scommetti trascorrerai la  ricreazione, l’ambiente è troppo vasto; le panche di legno intagliato, con il loro schienale da porte micenee, ti ricordano quegli allettanti sedili nei musei su cui infine scopri che non ti puoi sedere.

Tutto la prima volta è un’iperbole, e a me, che avevo per anni camminato sotto gli archi di Hogwarts, non poteva che apparire la scuola designata. Io mi iscrissi, che ormai sudavo freddo, con l’eccitazione di quando entri il portone di una cerimonia,  all’indirizzo Classico Sperimentale, che allora consisteva di un programma di matematica paragonabile a uno scientifico, di una rafforzata base di Scienze Naturali a partire dal triennio, dell’Inglese e della Storia dell’Arte per tutto il quinquennio nonché, ovviamente, delle Lettere Antiche. Donde il privilegio di suddividere lo sfiancante lustro in “ginnasio” e “liceo”.
E credo, per gli eletti, di aver detto tutto.
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Orientarmi tra le carte di quel primo anno non mi risulta affatto facile. Ricordo che l’idea di riportare in modo sistematico il corso dei miei pensieri, idea buona ma decisamente troppo categorica per i miei capricci, mi venne durante le vacanze di Natale. Proseguii con una certa costanza per alcuni mesi, tanto che riuscii a colmare ben due formati A4.
Fu un anno di discreta solitudine. La mia classe era numerosa, e all’inizio contavo 29 compagni; c’era Greg il metallaro, un ragazzo dai capelli lunghi e biondi che andava pazzo per il black metal proprio nel periodo in cui io mi ci appassionavo. Faceva ridere, con il suo accento così spiccato e il suo umorismo un po’ Luciferino; mi ci affezionai. Fu bocciato alla fine dell’anno, ed in seguito sarebbe diventato un fighetto da imbuco alle feste eleganti, i capelli rasati.
Poi c’era il professore di Italiano, Storia e Gerografia , divenuto sin dalla sua seconda ora in classe la nostra vittima espiatoria. Aveva il riporto di capelli neri sulla fronte che non gli stava da nessuna parte; portava la cravatta a disegni di paperelle o piccoli palloni da calcio. Non credo di poter annoverare una sola lezione senza che l’intera aula non fosse scossa da belati, abbaii, ticchettio di monetine e sfregamento di sedie, nonché dagli ultrasuoni provenienti da un qualche iPhone. I più entusiasti di noi inoltre dilettavano il prof con il curioso gioco della “macedonia”, il cui orchestratore doveva sussurrare diversi nomi di frutta corrispondenti ad altrettanti ragazzi, i quali,  al richiamo, si alzavano bene in piedi, per poi rimettersi a sedere. Alla parola “macedonia” tutti i partecipanti si alzavano in piedi. A metà dell’anno il prof ci informò, con aria debilitata, che aveva già fatto domanda come custode di cimitero.
Poi c’era la prof. Vita Finzi di Latino e Greco. C’è ancora la prof Vita Finzi di Latino e Greco. Una piccoletta dagli occhi azzurri simili a laser, i capelli castano chiaro perennemente sconvolti da nuove pieghe, il bel sorriso, l’espressione giovanile e, per varietà, oserei dire manichea. Un mattino te la ritrovi a spettegolare con gioviale energia, come un’amica; il mattino dopo si lancia a tiro di schioppo in una spiegazione dai toni sepolcrali, evitando accuratamente di rispondere al “buongiorno”. In quel momento realizzi che deve aver appena corretto i compiti in classe. Siamo cresciuti tra le sue strigliate e le sue lezioni entusiasmanti; ed io in particolare ero sensibile al fascino invasato che trapelava dalle dispense di sintassi.
Fui interrogata da lei al primo giro di settembre, con altre tre compagne, e puntualmente fu anche una delle poche prove di grammatica in cui mi accaparrai il voto più alto. Tuttavia, esiste una spiegazione razionale a un tale miracolo: ero appena uscita dalle medie con valutazioni roboanti, e credevo di essere portata circa in qualunque cosa: ancora confidavo nella mia buona stella scolastica. Naturalmente mi smontarono subito; ma ricordo ancora di quel giorno il mio sospiro di sollievo nel momento in cui la Finzi, ormai fiduciosa di una mia buona riuscita, dopo aver sottoposto le altre alla declamazione dell’alfabeto greco, disse che da me lo voleva al contrario. Ebbi una fortuna sfacciata: io di certo l’alfabeto al dritto, così veloce come le mie compagne, non lo sapevo.

Quel Natale lessi anche Cime Tempestose. Da allora rimase, e sempre rimarrà per motivi affettivi, il mio libro preferito. Harry Potter naturalmente non conta come libro. La motivazione è duplice: in primo luogo era finalmente un libro di montagna, di vento e di neve, dove ci sono i pini, il vuoto granitico del cielo e l’odore di casa rustica, letto proprio in montagna. Del mio viscerale, sconfinato amore per la montagna potrei stare a dissertare, o a balbettare, giorni certamente, senza riuscire ad esprimere nulla del mio sentimento. Quando guardo le montagne, tutti i loro colori scuri, il verde, la terra bruciata, l’oro dell’erba, il nero e il grigio delle conifere, come litografie sulle luci radenti, quando riascolto il loro silenzio che è come un abisso, il mio cuore rigurgita come una pentola piena, e mi è spontaneo e impellente piangere. Dunque un libro che avesse la stessa oscurità calda, come di coperta, di bevande bollenti, di profumi infantili, era ciò che mi serviva per legare una storia alle montagne per sempre. Le mie montagne, le Alpi.
Dai miei primi tre mesi di vita abitiamo l’estate e l’inverno, spesso anche a Pasqua, nell’appartamento del nonno in Val di Sole, per un totale di circa due mesi e mezzo ogni anno. Esso è al piano terra di un condominio anni ’80 che riproduce la tipica struttura a tetto spiovente

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