Diario. Prima pagina. Sul Galvani.
Claudia Ansaloni, 3^F
Il mio primo quaderno di
appunti risale al dicembre 2008: quindi, facendo i conti, avevo appena iniziato
il ginnasio. A questo punto mi sento obbligata a spennellarvi in due tratti
l’immagine di uno dei luoghi che
maggiormente saranno teatro delle mie vicende: l’edificio scolastico, il
Glorioso Istituto, il Liceo Ginnasio Statale Luigi Galvani. Nonostante tutta la
mia sincerissima e devotissima venerazione per Galvani, dopo aver scoperto che
seviziava rane con giochini elettrici, un po’ ti si sgonfia tutto. Cioè, che
so, “Liceo Panteon” a questo punto poteva essere adeguato.
Ciò non toglie che Galvani fu
un innovatore e un mago moderno, nonché, immancabilmente, un bolognese.
Comunque, tornando alla
scuola: il numero civico 38 di Via Castiglione è un lungo serpentone di colonne
che si snoda tra la chiesa di Santa Lucia, una costruzione massiccia di pietra
e mattoni bruniti, e l’angolo con via Cartoleria, dove sta incassato sotto la
sua tettoia di vetro il teatro Duse, e all’incrocio con la quale si innalza il
torresotto di Via Castiglione. Oltre la torre, attraversato il suo arco a
mandorla che troneggia sulla strada, ci sono, in ordine, una squisita gelateria
dagli interni raffinati, quindi lo studentesco “Caffè degli Artisti” e una
buona pizzeria, benchè segnalata dalla non troppo fantasiosa insegna “O sole
mio”. Ma a questo punto abbiamo
quasi raggiunto porta Castiglione, la fortificazione residua delle mura
trecentesche che svetta sui viali di circonvalazione.
Tornando invece, rispetto alla
scuola, dall’altra parte della via - una via contorta e chiaroscura, angusta
tra i suoi capitelli aristocratici – troviamo altri due luoghi molto
significativi, anche se non immediatamente, ai fini della mia narrazione.
Per prima, proprio di fronte
al sagrato di Santa Lucia, la vetrina a botte di un negozio dall’entrata
nascosta, poiché aperta sul cortile del palazzo. Il negozio è la libreria di
occultismo “Ibis”. Vende per lo più testi di magia, filosofie orientali e miti
antichi, nonché di autori misconosciuti, esperti in cabala, psicologia analitica e iconografia. Il locale ha
sempre esercitato su di me un fascino irresistibile perchè, ben lontano dallo
spacciare materiale da ciarlatani, al contrario apre una finestra su un mondo
olistico e dimenticato, proprio in faccia al Galvani, dove, in fondo, tali
tradizioni si studiano. Poi, vicino all’incrocio con l’ottocentesca Via Farini,
ecco il dimesso dispaccio dei Pakistani, altrimenti detti “Paki” o “Pako”, più
familiarmente “i Cioccolata”. La comunità Pakistana è ben nota ai giovani
bolognesi per la facilitazione di quegli indispensabili acquisti notturni che
gli sfaticati bottegai italiani, chiudendo per ora di cena, ostacolano. Ma
quest’ultimo luogo farà comparsa nella nostra storia solo molto, molto più
avanti.
Ora corriamo sotto gli acuti
portici della via, dove il mattino l’azzurro cenere dell’alba, all’uscita da
scuola l’ocra brillante, il rosso la sera, si proiettano in arcate continue sui
pavimenti, ora in salita, ora in discesa, intervallati dalle ombre delle
colonne, queste peculiari per ogni portone; dove alle otto d’inverno, e la
notte sempre, si gonfiano bolle arancio scuro dalle lanterne sospese, dando
origine a quei calderoni di luce che non possono che ricordare il fuoco in cui
a Lascaux si concepivano le pitture.
Infine ti trovi di nuovo sotto
il cielo. Ecco l’acciottolato della Chiesa, e poi, ancora, il crepidoma del
Galvani. Alzi lo sguardo: ci sono il suo colonnato solenne e poi il suo corpo
vero e proprio, severo e color zuppa inglese. Gli ordini di finestre sono
squadrati, stile scarno-neoclassico, tinti di carminio dalle tende. E’un
edificio serioso, un po’grave , belloccio. Arguisci che le sue fondamenta siano
antiche, per lo meno Settecentesche, con quel tono freddo; ma fidati, non
riusciresti mai a raccapezzartici con la storia della sua gestazione, neppure
fossi un Philipe Daverio.
L’isolato ha preso forma e
carattere dalle esigenze dei Gesuiti nel Cinquecento, il cui progetto didattico
fu anche l’embrione del futuro Liceo; fu poi imborghesito e tirato a lucido con
la venuta di Napoleone di città. L’istituzione statale invece è dop del 1860,
modello piemontese, di quando la politica nostrana aveva ancora buone
intenzioni. Le lezioni allora si tenevano nei locali dell’Ospedale della Morte,
quello che ora è il notoriamente allegro, animato “Museo” del Galvani.
Inoltre, la prima scoperta del futuro habitat scolastico tutti i Galvanini la fanno che
fuori è buio. Gli Open Day, quando gli istituti superiori si aprono ai ragazzi
di terza media e alle loro famiglie, e che costituiscono una sorta di “fiera
scolastica” cittadina, in genere si tengono a Dicembre, a partire dalle cinque
del pomeriggio, quando un blu elettrico è ormai calato sulle tegole di Bologna.
Il primo
impatto è quello con un luogo dai locali ampi, austeri, un po’vuoti, dai
soffitti alti cinque metri e talvolta scrostati, dalle finestre immense e
coperte da tessuti pesanti, dalle viste malinconiche sui colli dai laboratori
del terzo piano. Ci sono troppe scale, e soprattutto sono troppo lunghe, di
alcune non si contano i gradini, altre hanno rampe che ti paiono verticali;
quella vasta elicoidale che parte dalla cancellata presso la Presidenza ti
inquieta con la sua balaustra nervosa e nera, ed ha gli scalini così consumati
da risultare sdrucciolevoli. Poi, ai piani, dove zoomi immediatamente sulle tanto agognate macchinette da
merenderi e dove scommetti trascorrerai la ricreazione, l’ambiente è troppo vasto; le panche di legno
intagliato, con il loro schienale da porte micenee, ti ricordano quegli
allettanti sedili nei musei su cui infine scopri che non ti puoi sedere.
Tutto
la prima volta è un’iperbole, e a me, che avevo per anni camminato sotto gli
archi di Hogwarts, non poteva che apparire la scuola designata. Io mi iscrissi,
che ormai sudavo freddo, con l’eccitazione di quando entri il portone di una
cerimonia, all’indirizzo Classico
Sperimentale, che allora consisteva di un programma di matematica paragonabile
a uno scientifico, di una rafforzata base di Scienze Naturali a partire dal
triennio, dell’Inglese e della Storia dell’Arte per tutto il quinquennio
nonché, ovviamente, delle Lettere Antiche. Donde il privilegio di suddividere
lo sfiancante lustro in “ginnasio” e “liceo”.
E
credo, per gli eletti, di aver detto tutto.
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Orientarmi tra le carte di quel primo anno non mi risulta
affatto facile. Ricordo che l’idea di riportare in modo sistematico il corso
dei miei pensieri, idea buona ma decisamente troppo categorica per i miei
capricci, mi venne durante le vacanze di Natale. Proseguii con una certa
costanza per alcuni mesi, tanto che riuscii a colmare ben due formati A4.
Fu
un anno di discreta solitudine. La mia classe era numerosa, e all’inizio contavo
29 compagni; c’era Greg il metallaro, un ragazzo dai capelli lunghi e biondi
che andava pazzo per il black metal proprio nel periodo in cui io mi ci
appassionavo. Faceva ridere, con il suo accento così spiccato e il suo umorismo
un po’ Luciferino; mi ci affezionai. Fu bocciato alla fine dell’anno, ed in
seguito sarebbe diventato un fighetto da imbuco alle feste eleganti, i capelli
rasati.
Poi
c’era il professore di Italiano, Storia e Gerografia , divenuto sin dalla sua
seconda ora in classe la nostra vittima espiatoria. Aveva il riporto di capelli
neri sulla fronte che non gli stava da nessuna parte; portava la cravatta a
disegni di paperelle o piccoli palloni da calcio. Non credo di poter annoverare
una sola lezione senza che l’intera aula non fosse scossa da belati, abbaii,
ticchettio di monetine e sfregamento di sedie, nonché dagli ultrasuoni
provenienti da un qualche iPhone. I più entusiasti di noi inoltre dilettavano
il prof con il curioso gioco della “macedonia”, il cui orchestratore doveva
sussurrare diversi nomi di frutta corrispondenti ad altrettanti ragazzi, i
quali, al richiamo, si alzavano
bene in piedi, per poi rimettersi a sedere. Alla parola “macedonia” tutti i
partecipanti si alzavano in piedi. A metà dell’anno il prof ci informò, con
aria debilitata, che aveva già fatto domanda come custode di cimitero.
Poi c’era la prof. Vita Finzi di Latino e Greco. C’è
ancora la prof Vita Finzi di Latino e Greco. Una piccoletta dagli occhi azzurri
simili a laser, i capelli castano chiaro perennemente sconvolti da nuove
pieghe, il bel sorriso, l’espressione giovanile e, per varietà, oserei dire
manichea. Un mattino te la ritrovi a spettegolare con gioviale energia, come
un’amica; il mattino dopo si lancia a tiro di schioppo in una spiegazione dai
toni sepolcrali, evitando accuratamente di rispondere al “buongiorno”. In quel
momento realizzi che deve aver appena corretto i compiti in classe. Siamo
cresciuti tra le sue strigliate e le sue lezioni entusiasmanti; ed io in
particolare ero sensibile al fascino invasato che trapelava dalle dispense di
sintassi.
Fui
interrogata da lei al primo giro di settembre, con altre tre compagne, e
puntualmente fu anche una delle poche prove di grammatica in cui mi accaparrai
il voto più alto. Tuttavia, esiste una spiegazione razionale a un tale
miracolo: ero appena uscita dalle medie con valutazioni roboanti, e credevo di
essere portata circa in qualunque cosa: ancora confidavo nella mia buona stella
scolastica. Naturalmente mi smontarono subito; ma ricordo ancora di quel giorno
il mio sospiro di sollievo nel momento in cui la Finzi, ormai fiduciosa di una
mia buona riuscita, dopo aver sottoposto le altre alla declamazione
dell’alfabeto greco, disse che da me lo voleva al contrario. Ebbi una fortuna
sfacciata: io di certo l’alfabeto al dritto, così veloce come le mie compagne,
non lo sapevo.
Quel
Natale lessi anche Cime Tempestose. Da allora rimase, e sempre rimarrà per
motivi affettivi, il mio libro preferito. Harry Potter naturalmente non conta
come libro. La motivazione è duplice: in primo luogo era finalmente un libro di
montagna, di vento e di neve, dove ci sono i pini, il vuoto granitico del cielo
e l’odore di casa rustica, letto proprio in montagna. Del mio viscerale,
sconfinato amore per la montagna potrei stare a dissertare, o a balbettare,
giorni certamente, senza riuscire ad esprimere nulla del mio sentimento. Quando
guardo le montagne, tutti i loro colori scuri, il verde, la terra bruciata,
l’oro dell’erba, il nero e il grigio delle conifere, come litografie sulle luci
radenti, quando riascolto il loro silenzio che è come un abisso, il mio cuore
rigurgita come una pentola piena, e mi è spontaneo e impellente piangere.
Dunque un libro che avesse la stessa oscurità calda, come di coperta, di
bevande bollenti, di profumi infantili, era ciò che mi serviva per legare una
storia alle montagne per sempre. Le mie montagne, le Alpi.
Dai
miei primi tre mesi di vita abitiamo l’estate e l’inverno, spesso anche a
Pasqua, nell’appartamento del nonno in Val di Sole, per un totale di circa due
mesi e mezzo ogni anno. Esso è al piano terra di un condominio anni ’80 che
riproduce la tipica struttura a tetto spiovente
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