Come cambia il sentimento più antico del mondo
di Maria Visconti, 3F
C'era una volta la paura.
Quella paura che faceva tremare i polsi davanti a una decisione importante da
prendere, che attanagliava lo stomaco al momento di affrontare un viaggio
pericoloso o di fronte alla prospettiva di cambiare lavoro. Il mondo stesso era
intriso di paura: nella quotidianità della vita, come dimostra Rosellina Balbi
("Madre paura", 1984), ma anche nell'orizzonte immaginario della
società. La paura stava dietro ogni momento dell'esistenza, la caratterizzava e
la guidava, imprimendo stimoli sempre acuti e insopprimibili che culminavano
con la paura regina di tutte le paure: la paura della morte.
Questo sentimento ha
regolato e indirizzato per secoli l'attività umana, ne ha indicato le
coordinate e determinato le scelte, finalizzando la formulazione stessa delle
società civili in quanto riduttrici di paura. Tutte le comunità basate su
legami "solidi" – secondo la
felice intuizione di Zygmunt Bauman – sono fondate sulla paura e sulla
necessità istituzionale di controllarla e ridurla. Ma la paura può essere anche
il collante capace di tenere in piedi gli Stati, quando i legami sociali e la
funzione stessa dello Stato si vanno indebolendo. La minaccia di paure reali o
immaginarie diviene allora un potente strumento di rafforzamento del governo.
Infatti, secondo Bauman: "In un periodo in cui tutte le grandi
idee hanno perso credibilità, la paura di un nemico fantasma è tutto ciò che è
rimasto ai politici per conservare il potere" (Paura liquida, 2009). Lo testimonia anche la Letteratura con "La
fattoria degli animali" di George Orwell, 1947.
Ed è questo il compito degli
Stati nazionali, a partire dal XVII secolo, come di tutti gli Stati autoritari
che si sono succeduti nel secolo scorso; il totalitarismo – per definizione un
regime politico generatore di paure – nasce, paradossalmente, come reazione a
paure sociali di ben più vaste proporzioni.
Tutto ciò non si applica pedissequamente
alle società "liquide". Nella
società occidentale in cui attualmente viviamo immersi, il predominio assoluto
della paura sembra essere messo in discussione. I legami liquidi stanno
trasformando il mondo che conoscevamo verso un mondo "senza paura".
Non tanto aggressivo, disinibito o spavaldo, quanto sostanzialmente indifferente alla paura. La causa di questa tendenza sociale che
investe la psicologia degli individui non è un affrancamento da un'oppressione
millenaria, di una liberazione consapevole da una condizione primordiale, né
tantomeno conseguenza di un processo di maturazione collettiva: proviene invece
dall'adattamento a una mutata condizione esistenziale, quale conseguenza
inevitabile dell'incertezza che pervade la nostra società in ogni momento della
vita. E, come tale, non si può considerare un progresso.
Vincere la paura vuol dire
imparare a convivere con essa, a controllarla e utilizzarla a nostro vantaggio.
Se negli animali la paura è solo un istinto naturale che spinge alla fuga,
all'immobilizzazione se il pericolo è incombente, alla reazione aggressiva se
non si hanno altre vie d'uscita, l'uomo ha elaborato altre difese di natura culturale, cioè indotte dalla ragione e prodotte dalla
conoscenza. Due metodi di affrontare la paura rispetto a due metodi di
concepire la paura che i Greci avevano già individuato, assegnando loro nomi
diversi. Fobos era la paura
cieca, inconsapevole, con radici profonde, ataviche, difficilmente
controllabili. Deinos era la
paura conscia di un pericolo incombente di cui si conoscesse l'origine: viene
dalla radice Deos in riferimento al timore religioso. Fobos è figlio di Ares, dio della guerra, divinità venerata soprattutto a
Sparta. Sugli scudi dei guerrieri si trovano raffigurate insieme le immagini di
Fobos e della Gorgone. A Roma, erede della cultura ellenica, gli dei della
paura sono Metus, corrispondente
a Deinos, e Pavor (da cui
l'aggettivo "pavido") a Fobos. Fobos starebbe al Mythos come Deinos al Logos. Non solo Fobos è stato sacrificato in favore di
Deinos, ma sembra che il suo destino fosse segnato e il suo senso destinato a
perdersi con l'avanzare della civiltà.
Due paure, due tipologie ben
distinte che tuttavia la lingua moderna non tiene in debito conto, spesso
confondendole. La psicanalisi ha cercato di ripristinarne i concetti,
individuando l'antico Deinos nella paura vera e propria, quel senso d'angoscia
interiore non ben definito, che non ha un oggetto, capace però non sconvolgere
l'equilibrio psicofisico dell'individuo anche in assenza di una minaccia
concreta. Secondo questa distinzione la paura, per essere tale, deve essere
riferita a ciò che si conosce, fosse anche un briciolo di razionalità, mentre
l'angoscia è propria di aspettative ansiogene totalmente sconosciute. Da questa
distinzione, ormai correntemente accettata, Sigmund Freud ha tratto la teoria
del "perturbante", applicata
con notevole successo alla Letteratura e all'Arte. La paura avrebbe a che fare
con il ritorno di un'infinità di emozioni che, per le ragioni più diverse, sono
state collocate in una zona non percepibile dalla coscienza, letteralmente
"sepolte", e dunque "rimosse", a seguito di un'operazione
difensiva della mente. E' il caso dell'idea della morte, accantonata per poter
continuare a vivere ma che può dar luogo a effetti spaventevoli se fatta
riaffiorare in particolari situazioni.
Conoscere il nemico da
combattere è, nella strategia bellica, il primo passo per guadagnare la
vittoria. Alla paura della morte ha provveduto la religione facendo della
conclusione di ogni ciclo vitale un passaggio necessario a raggiungere uno status
soprannaturale, attraverso un atto di fede, cioè attraverso l'intervento di
delle facoltà nobili della mente: la coscienza, l'intelligenza, la logica, la
memoria, l'immaginazione, l'astrazione.
Alle paure
"naturali", certe e potenzialmente controllabili – dal fuoco ai
temporali, dalle alluvioni ai terremoti – si sono aggiunte col tempo le paure
"artificiali" prodotte dall'uomo stesso, in grado di provocare
disastri anche più gravi di quelli naturali, la cui artificialità non
garantisce affatto la controllabilità da parte di una tecnologia non sempre
perfetta. La centrale di Chernobyl è ancora là a ricordarcelo. La tecnologia ha
bisogno di una continua e accurata manutenzione i cui costi tendono a salire
risultando sempre meno sopportabili per la comunità che se ne fa carico.
L'insicurezza che lo stato moderno dovrebbe cancellare per sempre ha raggiunto
livelli che preoccupano i cittadini: si è moltiplicato di pari passo con quello
che una volta era stato definito "progresso" e in nome del quale era
lecito adoperarsi, soffrire, sacrificarsi, mentre ora non ha più un nome. Al
pari del dio Fobos dei Greci, il progresso inteso come processo di
miglioramento della società è stato cancellato dal mondo attuale e relegato tra
le cose da studiare a tempo debito. Adesso la parola d'ordine è "emergenza" e tutto si fa in funzione dell'oggi, per
salvare il salvabile, per rattoppare problemi senza fine di un mondo che non sa
prevedere il proprio futuro. Forse perché un futuro non ci sarà.
La paura istintiva è stata
cancellata dalla cultura. L'antico Fobos trasformato in "fobia": maniacale, ignobile, privo della dignità
originaria e magari curabile. Ci siamo liberati di Fobos come di un fastidio
sgradito, semplicemente cancellandolo dal linguaggio. E una cosa che non ha nome
di fatto non esiste.
Tutto ciò è ricondotto
dentro la categoria dalla paura razionale, la paura del noto, che ha una sua
giustificazione ma che può essere anche fonte di piacere e divertimento. Il
carattere "affrontabile" della paura, talmente affrontabile da
permettere di convivere con essa senza grossi problemi, la rende persino una
qualità ricercata, ma sempre con un margine di rischio, della cui entità siamo
vagamente coscienti. Un rischio che è possibile accettare a seconda del nostro
grado di temerarietà. Salire su un ottovolante, lanciarsi col paracadute o fare
bungee jumping gettandosi da un ponte legati a una corda elastica, cimentarsi
in un’arrampicata – durante il fascismo c’era anche il salto nel cerchio di
fuoco – non sono solo prove di ardimento e perizia, di superamento della paura,
razionalizzata e controllata grazie all’utilizzo di attrezzature idonee e
misure di sicurezza: sono forme di un divertimento, cioè di un piacere prodotto
dalla paura.
Altre volte, ancora, esso
non è prodotto da un coinvolgimento fisico quanto dall’immaginazione, da
un’elaborazione della fantasia. La lettura di romanzi d’orrore, la visione di
film terrorizzanti o la narrazione di storie spaventose riducano il meccanismo
della paura sul piano virtuale, con lo stesso immenso piacere. Questa volta
reso ancor più gradevole dalla consapevolezza di non rischiare alcun pericolo,
se non quello psicologico, in persone troppo influenzabili o emotive.
Nei bambini la capacità di
separazione o “straniamento” dal
contesto narrato, che permette di godere del piacere della paura, non è
pienamente sviluppata e l’avvenimento è vissuto come reale, e dunque totalmente
coinvolgente. Shock di questo genere possono avere anche conseguenze
traumatiche indelebili.
Vivere con le paure del XXI
secolo non è facile. Gli individui, sempre più soli o uniti in rapporti di
coppia instabili, ora che le masse si sono risolte in moltitudini, hanno
imparato a dominare le paure del passato. La paura della macchina, in
particolare, ha lasciato il posto a una paura diffusa per i complessi e
inconoscibili meccanismi della globalizzazione e dell’internazionalizzazione
dell’economia. Non automatici o casuali, mossi da ingranaggi sofisticati e
sentienti, come i robot di Asimov che si rivoltano contro i loro creatori.
Questi sono meccanismi ingenerati e controllati dall’uomo, ma da uomini senza
nome e senza pietà, più pericolosi perché infidi e mossi dall’unica legge
capace di regolare il mondo: la legge del profitto per il profitto.
Quella della globalizzazione
è una paura strisciante, tanto invadente da non conoscere confini politici e
sottrarsi, superandole, alle normative nazionali e locali. Viaggiando a livelli
tanto alti da essere persino invisibili ai più, determinando le sorti della
maggior parte dei cittadini del mondo, senza alcuna possibilità di controllo
democratico. Perché la leadership della globalizzazione è sottratta alla
tradizionale investitura dal basso, risponde a direttive e logiche che ci
sfuggono e di cui comprendiamo, solo a tratti e in parte, il senso e le
finalità. Le decisioni che la governano sono prese da un numero imprecisato di
persone senza volto che agiscono senza neppure conoscersi e infinitesimale,
frammentario e persino incerto contribuiscono a determinare la direzione dei
grandi mutamenti nel loro complesso. Governati da forza umane soverchianti che
hanno perduto ogni connotato di umanità, gli uomini del mondo globalizzato vivono un’esistenza senza punti di
riferimento. E la buona politica, le regole e i legami affettivi sinceri sembrano
solo un rifugio alla ricerca di conferme quotidiane che questo mondo non sa più
offrire.
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