ESCE IL PROMETEO CARTACEO!
ti aspettiamo domani a scuola al primo e
secondo intervallo per l'ultima
edizione dell'anno!
martedì 14 maggio 2013
domenica 17 marzo 2013
Utopia
di Claudia Ansaloni
Eravamo cento nel battaglione Totengeschichte. Durante gli
allenamenti ci muovevamo a cerchi, intonando nenie ben ritmate e
senza alcuna polifonia di fondo. I nostri passi solcavano la neve
alta fino al ginocchio con la stessa cadenza con cui mesi dopo
aravano i campi; ci avevano abituati a camminare a piedi nudi fra le
stoppie e a pestare i prati nei temporali estivi ingrassati dai gelsi
e dai lombrichi. Così, con la maturità, passavamo periodi
discontinui nell’arma, tra i cicli di lezione e le festività dello
stato. Ricordo quell’età con dolcezza e malinconia.
La scuola si spostava di mese in mese per tutta l’Europa. Lo stato
a quel tempo godeva della floridità dei suoi primi giorni di vita.
Ci spostavamo dalle aule fredde degli antichi monasteri alle rovine
di ferro delle fabbriche. Quando ce n’era la possibilità, il
nostro gruppo si mescolava con altri gruppi che circolavano in quelle
regioni e organizzavamo insieme le lezioni. Per tredici anni le
ragazze viaggiavano separate, ma poi, compiuti i quattordici, ci
mescolavamo, avendo seguito un’educazione dai modi diversi ma con
gli stessi obiettivi. Da quel momento si iniziava ad abitare con
frequenza nelle città, che si popolavano dei nostri lamenti, dei
nostri sogni e delle nostre scorribande. Quelli che una volta erano i
musei postmoderni, bianche balene arenate sul cemento, erano stati
vuotati e adibiti a discoteche, nei quali, dopo i diciassette anni,
potevamo ballare e celebrare la notte. Gli oggetti d’arte erano
tornati agli ambienti che li avevano incubati, palazzi, soffitte,
giardini, le esedre scure delle cappelle di famiglia nelle chiese, i
balconi aperti sui colli. Tutto, del resto, era stato strappato alla
proprietà privata ed ripensato perché il nostro occhio se ne
potesse accrescere, alimentare. Sin da quando entravamo nel percorso
di educazione voluto dallo stato infatti, prima, cioè, che noi
nascessimo, dovevamo connaturarci ai luoghi evocativi della storia
dell’Europa, in modo che essa fosse sempre palpitante, scalciante
di vita. Dovevamo studiare all’aria aperta, conoscere i boschi
delle battaglie centenarie, battere con scrupolo i confini passati
dei fiumi, fiutare il prurito dell’aria nordica, e sorseggiare i
liquori dell’afa meridionale. E soffiare sui libri delle
biblioteche secolari, ripassare angosciati, senza poter eppure
evitare di distrarci, sotto la luce nelle cattedrali, poter
scambiare aneddoti ed esperienze con classi di ogni cultura nazionale
ed età, sperimentare per necessità le lingue, ci rendeva partecipi
di un’esperienza eccellente di studio comune a tutti i giovani
europei. Le materie di base erano sette: matematica, musica, fisica,
biologia – e un particolare rilievo era posto alla genetica -,
storia, letteratura e retorica. La storiain particolare, e questo fu
un aspetto cardinale per la solidità stessa dello stato, faceva
confluire i rami dello spirito e della tecnica in un unico fusto,
cosicchè contemporaneamente dissertavamo sui filosofi e
dissezionavamo l’innesco della polvere da sparo. Infatti, lo stato
si reggeva sull’unione di due moti del carattere europeo, l’ingegno
pratico e l’amore contemplativo, che qualche vecchio spocchioso
voleva separati, ma che lo stato vedeva funzionanti come due timpani
ai lati di una testa. Nella letteratura, inebriante era lo spazio
dedicato alle parole religiose, specialmente quando capitava di
ascoltarle sul riflusso di una spiaggia o nel chiacchiericcio serale
dei grilli l’estate; leggevamo la Bibbia integralmente e tutti i
miti pagani, nonché qualunque brano coranico ci consigliassero i
nostri compagni musulmani. Della retorica poi, erano indispensabili
gli anni della grammatica greca e di quella latina, e l’analisi
filologica dei testi classici. Il senso della misura ti segnava la
vita, come un epitafio.
Nel frattempo marciavamo, imparavamo a condividere le tende e ad
armare le barche.
Noi ragazzi a diciotto anni iniziavamo a prestare servizio
nell’esercito, le ragazze avevano ricevuto invece già sporadici
addestramenti paramilitari, e da allora il loro contributo nel corpo
diveniva volontario. Piuttosto, erano indirizzate a curare la
diplomazia tra le nazioni, ed anche fuori dall’Europa. Della loro
abilità e finezza, così curate dalla loro formazione, ne godevano
le relazioni dell’Alleanza Boreale e gli equilibri con gli altri
popoli del mondo. Allo stesso modo, anche noi dovevamo essere in
grado di rinfrescare in ogni momento i tavoli assembleari con la
nostra presenza, portando acume e prospettive brillanti. Questo
chiedeva lo stato da noi, che maturassimo completi.
Ma poi avvenne quell’episodio che non dimenticherò mai, e che mi
tranciò l’esistenza come un mietitrebbia passa un topolino. Mi
ritrovavo dunque impegnato, appena ventenne, in una missione
politica che doveva placare le inquietanti ombre di una sedizione,
che veniva dal basso, da quelle anime grezze che lo stato aveva
scartato. Esse erano i nostri schiavi, uomini stupidi e insensibili,
che svolgevano compiti ripetitivi o di contatto col denaro - le
pratiche burocratiche, il commercio e l’imprenditoria: mentre noi
cercavamo l’oro più vero, loro fin da adolescenti si erano
rivelati tartufi di quella razza. Erano una massa lercia,
brulicante e in continua riproduzione. Mi avevano dunque convocato a
una riunione del partito, dove discutere sul da farsi.
Si trovava sul relitto si un transatlantico infossato tra le dune di
un lungomare vuoto e bellissimo. Lontano, la linea blu del mare
inscuriva sul giallo da una parte e sul celeste dall’altra. Il sole
era così alto che non potevo vederlo. Dopo una prima discussione,
prendevamo una pausa sul ponte imbiancato di luce. E tutto era gala,
tutto era grazia e bellezza, io nella mia lunga divisa nera, col
teschio che mi rideva sopra la fronte, e i bicchieri che risuonavano
vetro, le onde rosse dei vini, le mie palpebre che si rilassavano
nella calma piatta – e quel mare là in fondo, apollineo e fosco.
Ebbene, lungo il mare c’era una ferrovia.
Ad un certo punto risvegliammo i nostri cannoni presso la plancia,
quando il treno tagliò l’orizzonte. Vidi degli uomini in quella
stringa nera fumante, battere le mani fuori dalle loro sbarre, udii
qualcosa come un urlo, ma non più forte del vento sui bicchieri.
Puntarono i cannoni, e quando il treno ci fu davanti spararono. La
striscia incendiata sfrecciò lungo il mare, mentre le donne ridevano
come angeli, e gli uomini levavano i calici.
Mai vidi una cosa più crudele e più bella.
La guerra poi dei neri d’Africa si mescolò alla nostra, con
l’orrore che ora porterò al camposanto.
sabato 16 marzo 2013
cinema
Hysteria – recensione di Odo Paganelli.
Sono in pochi a sapere che il
vibratore fu inventato quasi per caso da un giovane medico londinese
che, verso la fine dell'Ottocento, curava "manualmente"
donne benestanti e insoddisfatte che si supponevano affette da
isteria e da un suo amico appassionato della neonata scienza
elettrica, l’elettro shock . Ma ora la regista Tanya Wexler a reso
questa storia pubblica e molti ne sono rimasti affascinati.
La commedia è ambientata nella
Londra vittoriana in preda alla rivoluzione industriale del 1880. Il
brillante giovane dottore Mortimer Granville è in cerca di un nuovo
lavoro. Lo trova presso il Dottor Dalrymple, specializzato nel
trattamento dei casi di isteria. Dalrymple convinto del suo metodo
cura le "isteriche" con una terapia scandalosamente
efficace: il "massaggio manuale" sotto le gonne delle sue
pazienti. Il dottore, però, deve lottare contro la fiera
disapprovazione della figlia Charlotte, sostenitrice dei diritti
delle donne. Mortimer decide di affinare il metodo terapeutico:
quando il suo amico Edmund gli rivela il progetto del suo nuovo
spolverino elettrico, gli viene in mente un'idea più che geniale.
Mortimer è inizialmente attratto
dalla figlia più giovane di Dalrymple, Emily (Felicity Jones), ma
è finalmente conquistato l'indipendenza da Charlotte (Maggie
Gyllenhaal – di cui ricordiamo la magistrale interpretazione in
Crazy Heart acanto a Jeff Bridges). La sceneggiatura mostra
goffamente Mortimer e Charlotte come due persone che già sanno di
essere in un tempo rivoluzionario. Per Mortimer, si tratta di una
rivoluzione scientifica (la teoria dei germi e le condizioni
sanitarie) , mentre Charlotte esprime ad alta voce la sua convinzione
che sta vivendo in un’epoca rivoluzionaria per le donne. Il
modo in cui i personaggi discutono sul loro presente, è irreale come
se avessero parlato con qualcuno venuto dal futuro.
Il personaggio di Charlotte è
troppo moderno ed esagerato nei suoi atteggiamenti, secondo me per
evitare la possibile critica che la trama sia troppo maschilista ed
usi il gentil sesso solo come oggetti per la commedia.
Hysteria
è una commedia tipicamente britannica ironica e brillante e come
dicono i titoli di testa "Quanto segue è basato su eventi
realmente accaduti”.
Nel complesso un film semplice con
ritmo allegro con brio che scorre via e la cosa peggiore che puo’
fare e farvi girare gli occhi.
intervista
Intervista a due membri del gruppo Pic
Di
Yvonne Tullini 2^H
Se
avete letto l’ultimo numero del Prometeo, saprete sicuramente che è
nato un nuovo gruppo all’interno del nostro bene amato liceo.In
breve si tratta dell’acrostico di Proposta Informazione e
Confronto, e in occasione di ogni incontro si discute di temi di
attualità. Ecco una doppia intervista, composta da un membro
presente fin dal primo incontro e da un altro, membro ufficiale da
qualche incontro.
D:
Daniele Grillo
M:
Maria Chiara Veronesi
- Come siete venuti a conoscenza del gruppo PIC?
D:
Ne sono venuto a conoscenza tramite la cogestione tenutasi il 30
novembre 2011, in occasione della lezione in aula A1.
M:
Il mio compagno di classe,Daniele Grillo, me ne ha parlato e ha
voluto coinvolgermi e ne sono stata subito entusiasta.
- Che cosa pensate di ottenere partecipandovi?
D:
Ritengo che il gruppo permetta una partecipazione più attiva da
parte degli studenti stessi e che sia un’occasione per cooperare
maggiormente. Inoltre si è in grado di proporre le proprie idee e/o
iniziative e discutere tra studenti.
M:
Penso che sia un modo per venire a conoscenza delle problematiche
della scuola e quindi per cercare di risolvere.
- Apportereste modifiche in quale campo in particolare della politica nazionale, europea e mondiale?
D:
Per quanto riguarda la politica italiana migliorerei il sistema
politico, in un certo senso rendendolo più giovane, e nel campo
europei vorrei più collaborazione tra i paesi che compongono
l’unione europea.
M:
Dal punto di vista italiano, ritengo che ci sia bisogno di un
maggiore interesse verso i giovani e il loro futuro e inoltre favore
l'integrazione politica delle donne.
- Quali sono secondo voi i vantaggi nello svolgere le assemblee d’istituto all’interno dell’istituto stesso, essendo questo uno degli obiettivi principali del gruppo?
D:Sono
convinto che questa modifica ha come risultato una minore spesa
(circa di 1000 euro) e una partecipazione più attiva, in quanto gli
studenti hanno maggiore scelta e possono essi stessi proporre un tema
sul quale discutere.
M:maggiore
scelta delle tematiche, delle attività da poter svolgere e la
possibilità di un dialogo molto più diretto sia fra noi giovani sia
fra professori.
- Quali sono a vostro avviso i vantaggi del booksharing?
D:
Il book sharing consente di rendere attive tutte le biblioteche del
Galvani.
M:
A mio parere permette di migliorare e potenziare lo scambio tra
studenti e sicuramente un notevole risparmio.
- Quali altre obiettivi porreste al gruppo da raggiungere, quindi in quali altri campi approfondireste?
D:
cineforum e attività culturali in modo da coinvolgere gli studenti
della nostra scuola ad un'attività di approfondimento su argomenti
normalmente poco trattati.
M:
vorrei avviare un progetto per sensibilizzare gli studenti alle
problematiche ambientali, impegnandosi in iniziative da proporre in
ambito scolastico.
- In che cosa consiste un banchetto informativo?
D
e M: un punto dove scambiare con gli studenti informazioni su
iniziative, proposte e progetti inerenti al nostro gruppo.
- Siete soddisfatti della modalità con cui vengono affrontate le tematiche proposte dal gruppo oppure vi porreste qualche modifica?
D
e M: siamo pienamente soddisfatti di partecipare a questo gruppo che
riteniamo una fonte di nuove proposte e nuove amicizie, anche se
sarebbe bello una più ampia partecipazione.
- Consiglieresti a tutti una calda partecipazione?
D
e M: assolutamente si, in modo tale da poter provare a migliore il
Galvani sotto molti aspetti e crediamo che nessuno si pentirà della
sua partecipazione.
Voti ai professori
Ecco i voti che sono saltati fuori in un'intervista agli alunni delle classi 3 H, 3 T e 3 I sui professori...
Emanuela Alessandrini (inglese)
3, 8, 8, 8, 6, 7
Falqui Massidda Stefano (filosofia)
10, 9, 9, 9, 8, 10, 9, 9, 8
Coronato Antonio (italiano, latino, geografia)
10
Paola Giacconi (matematica, fisica)
8, 9, 9, 10
Francesca Salvatori (italiano, latino, geografia)
5, 7, 6, 5, 6, 8, 5, 6
Manja Finnberg (tedesco)
7, 7, 7, 7, 4, 4, 7, 6
Riccardo Carli (religione)
9, 10, 10, 10, 8, 8, 9
Michele Tosi (storia dell’arte)
7, 9, 9, 9, 10, 4, 8, 7
Laura Poletti (scienze)
8, 8, 9, 10
Karsten Hoffmann (tedesco)
8, 7, 7, 7, 6, 7, 6, 8
Stefania Bottazzi (educazione fisica)
9, 8, 8, 9, 4, 4, 9, 6
Elisabetta Farneti (italiano, greco, storia, latino, geografia)
9, 9
Annamaria Felisa (scienze)
9, 8, 6, 9
Heriberto Calvello (matematica, fisica)
6, 7, 7, 7 Claudia Rambelli (inglese)
8, 9
Monica Moriconi (spagnolo)
8, 9
di Carlotta Ferri
Musica
Il meglio del peggio
Qualche band italiana che vale la pena conoscere
di Anna Viceconti
Questo articolo
nasce in risposta a tre fenomeni spiacevoli: il mio vicino di casa
che ascolta a ripetizione Ligabue, il Festival di Sanremo e la
classifica “i 100 migliori dischi italiani” pubblicata da Rolling
Stone Italia.
Sembra che tutte
queste persone- i 10 milioni di spettatori incollati a guardare la
farfallina di Belen, quei burloni dei critici musicali e il vicino-
abbiano spento la radio vent’anni fa e non l’abbiano più accesa.
Perché da metà degli anni ’80 in poi il Belpaese Sull’Orlo del
Burrone ha prodotto una serie di band eccezionali, che però hanno
circolato solo sul mercato underground per parecchio tempo. Non
possiamo più permetterci di fare gli alternativi e dichiarare con
candido snobismo che “la musica italiana fa tutta schifo”. Ecco
un piccolo riassunto del meglio che c’è stato dagli anni ’90 ad
oggi a riprova del fatto che, tra i cantautori del premio Tenco ed il
duetto Gigi d’Alessio- Loredana Benson Bertè, c’è di mezzo il
mare.
STORICI(1990-2000)
Nel resto del mondo
impazzavano i Nirvana, i Pearl Jam, i R.E.M.; l’Italia affogava
nella “Milano da bere”. E proprio a Milano nel 1997 esce il
secondo disco in italiano degli Afterhours,
che per molti anni avevano scritto e cantato in inglese. L’album si
intitola Hai
paura del buio?,
ed è un capolavoro sospeso tra il grunge e l’hard rock. Elementi
base: testi poetici e disincantati (Voglio
una pelle splendida
e la mitica Sui
giovani d’oggi ci scatarro su,
dedicata agli pseudo-alternativi-figli di papà che incontriamo tutti
i sabato ai Giardini Margherita), base ritmica potente (Male
di miele, Veleno),
la voce indimenticabile di Agnelli (Come
vorrei).
Nello stesso anno
esce Piccolo
intervento a vivo,
il primo disco dei Tre
Allegri Ragazzi Morti capitanati
dal fumettista Davide Toffolo. Al contrario degli Afterhours i TARM
non pagano tributo a nessuna band grunge, anzi si distaccano dalla
tradizione precedente rendendosi impermeabili ad ogni
generalizzazione. L’album contiene alcuni pezzi fondamentali
(Hollywood
come Roma, Alice in città)
e un elemento che si definirà meglio nella canzone Mai
come voi del
’99: il disagio. Se gli Afterhours colgono l’ipocrisia borghese
delle grandi città, Toffolo e compagni sono i primi a descrivere con
affetto e realismo l’adolescenza, la ferita non rimarginabile tra
padri e figli, la ricerca di identità. Altri pezzi da ascoltare
obbligatoriamente: Il
mondo prima, Ogni adolescenza, Prova a star con me un altro inverno a
Pordenone, La poesia e la merce, La ballata delle ossa.
RECENTI(2000-2010)
Qui abbiamo
veramente l’imbarazzo della scelta. Nel 2002 proprio a Bologna si
formano i Marta
sui Tubi,
degni eredi degli Afterhours ma con qualche elemento rock in più (
l’originalità aritmica di Perché
non pesi niente
e di Cinestetica).
I Marta recuperano il meglio del rock passato (il blues di Vecchi
difetti),
ma anche le loro radici siciliane (il ritmo da tarantella di Di
Vino).
E sempre dalla Sicilia sbocciano i Pan
del Diavolo,
che pubblicano i loro ep con La Tempesta, la casa discografica
indipendente fondata dai Tre Allegri Ragazzi Morti. I Pan del Diavolo
sono taranta in versione rock, con una potenza vocale e melodica
veramente notevole (ascoltatevi Coltiverò
l’ortica, Il Boom, Pertanto
e la nuova Farò
cadere lei).
Ma la rinascita
passa anche e sempre per il Nord: sono di Genova gli Ex-Otago,
che nel 2003 pubblicano The
Chestnuts Times riscoprendo
una cosa chiamata pop. Le canzoni più belle sono però contenute
nell’ultimo album, Mezze
Stagioni:
da Una
vita col riporto
a Figli
degli hamburger
i testi presentano una nazione provinciale ed insoddisfatta, chiusa
in desideri infantili e frustrati. E se quest’ultima frase già vi
fa venire la depressione allora rinunciate ad ascoltare i belli,
incazzatissimi e musicalmente estranianti Ministri:
tutto il disagio sociale che respiriamo in questi anni è un nervo a
fior di pelle per questi ragazzini milanesi, che si sfogano negli
album I
soldi sono finiti, Tempi Bui e
Fuori.
Rimangono impressi nel cervello i versi di Noi
Fuori:
Noi
fuori dai campi dell’orgoglio e dall’ansia di medaglie/Noi fuori
siamo l’acqua sprecata ai confini dei deserti/Fuori dai cortei,
dalla burocrazia, fuori dalle fabbriche e dai musei/E’ dall’alto
che ci sparpagliano, è là in alto che inventano il pericolo/Noi
fuori dalle radio, dai minuti di silenzio,/dai conteggi, dal
consenso, dai sondaggi, dalle scuole di nostro signore,/dalle aiuole,
dai cantieri/Noi fuori non sappiamo cosa fare.
Brividi.
FRESCHISSIMI
(2011-work
in progress):
Continuando sulla
scia del pop i deliziosi Eva
mon amour,
che hanno attirato l’attenzione del pubblico solo nel 2011 con il
disco La
malattia dei numeri:
siamo lontani dal rock dei Marta sui Tubi e più vicini a quegli
scoppiati delle Luci della centrale elettrica. E’ iniziata l’epoca
dei versi lunghissimi e della completa disillusione, e questa band di
Velletri riesce comunque a mantenere l’equilibrio perfetto tra
parole e melodia; vedi le canzoni Prometto,
Il giorno dopo, Tutto quello che vuoi e
la bellissima La
tua rivoluzione.
Ma a mio parere il meglio deve ancora venire e arriva con L’orso,
duo creato da Mattia Barro e Tommaso Spinelli. I ragazzi hanno
pubblicato due ep (L’adolescente
e
La
Provincia)
prima autoprodotti, poi
attraverso
l’etichetta indipendente Garrincha Dischi. Non c’è la rabbia
degli anni precedenti ma una consapevolezza molto più profonda della
situazione in cui stiamo sprofondando (di
cosa vuoi che ti parli che ho poco più di vent'anni?/se alle crisi
mondiali preferisco i tuoi sguardi/se ho appena iniziato la mia
carriera da precario/e non avrò mai te o la mia amata pensione),
e soprattutto c’è una grande inventiva dal punto di vista musicale
(la tromba grandiosa in Invitami
per un tè,
il parlato di Per
quanto lontano abiti).
La chicca finale
arriva da Bologna, e si chiama Lo
stato sociale.
Non sono il solito gruppetto elettronico del cazzo, voci fredde e
testi banali: sono un’esplosione elettro-pop di ironia ( Magari
non è gay ma è aperto, Sono così indie)
e di malcontento (mi
sono rotto il cazzo che non sono d’accordo con te/ma morirei
affinchè tu possa dire la tua stronzata/che poi i nazisti sono
giovani che amano la politica/i comunisti prendono a modello Cristo e
i preti contestualizzano bestemmie, dalla
spassosa Mi
sono rotto il cazzo).
Ascoltatevi anche Amore
ai tempi dell’Ikea
e Abbiamo
vinto la guerra,
scritta in era Berlusconi e che suona come una profezia.
La cosa più
sorprendente? Cercando materiale per l’articolo ero arrivata ad una
ventina di band, ho dovuto eliminarne più della metà per mere
ragioni di spazio. Rimangono fuori i più noti Baustelle e Marlene
Kuntz, il Teatro degli Orrori, gli Zen Circus, i Cani…la buona
musica italiana esiste, l’importante è non smettere di cercarla;
perché, come sempre succede in Italia, il talento viene nascosto e
non valorizzato. Quindi ascoltate e diffondete!
P.S.:
forse lo stesso ragionamento si applica in tutti i campi. Forse
troviamo dieci autisti di autobus che fanno arrivare i mezzi in
orario, dieci vigili che fanno le multe ai Suv in doppia fila, dieci
politici assolutamente onesti. Forse dobbiamo solo cercare.
Hugo Cabret
Perché Johnny Depp nell'Hugo Cabret in 3D di Martin Scorsese?
Odo Paganelli 2H
The invention of Hugo Cabret
Questo film e’ un omaggio degli uomini di
cinema contemporanei a quello straordinario inventore e anticipatore
che fu Georges Méliès (1861-1938).
Méliès è il riconosciuto inventore del
‘cinema di finzione’,
degli ‘effetti speciali’
e di una miriade di tecniche fondamentali del cinema, dal montaggio
all’uso del colore, ottenuto, all’inizio, colorando a mano
i singoli fotogrammi.
Hugo Cabret film di Martin Scorsese prodotto
anche dalla Infinitum Nihil di Johnny Depp, che si ritaglia come
Martin Scorsese un piccolo cammeo all’interno del film , proprio
di Johnny Depp parliamo che non solo è uno dei produttori, ma ha
anche fatto parte delle di un sestetto di chitarre! ( Per
Martin Scorsese vi lascio il piacere di riconoscerlo nel film).
Scritto da John Logan, che ha adattato il
romanzo per ragazzi dell’americano Brian Selznick, di Brian
Selznick, pro-nipote di quel David O. Selznick, produttore di Via
col vento: The
invention of Hugo Cabret è
ambientato nella Parigi degli anni Trenta, un bambino più grande
della sua età sopravvive a stento schivando la vita. E’ il piccolo
orfano Hugo Cabret, che dopo la morte dello zio, manutentore degli
orologi della stazione ferroviaria, è costretto a rubare quanto gli
serve per sopravvivere. Suo padre gli ha lasciato un fantastico
automa trovato nella soffitta di un museo, dimenticato chissà per
quanto tempo e miracolosamente sfuggito all’incendio nel quale
l’uomo ha perso la vita. Tra l’automa da riparare e il ragazzo si
instaura dunque un rapporto tutto speciale, e la missione di Hugo
sembra essere quella di ridare vita a quell’ammasso di complicati
ingranaggi. Ma per farlo funzionare il bambino ha bisogno di
materiali, ed è costretto a rubare pezzi e piccoli ingranaggi che
solo i giocattoli possono contenere. Hugo quindi decide di sottrarli
ad un negozio di giocattoli situato all’interno della stazione, ma
viene scoperto dall’anziano proprietario e da
quell’incontro-scontro iniziano una serie di fatti legati l’uno
all’altro proprio come in un intricato ingranaggio. Entrano nella
storia altri interessanti personaggi, una ragazzina sveglia, nipote
del giocattolaio, un fantomatico amico, l’ispettore ferroviario e
lui: il cinema, con tutta la sua straordinaria magia evocativa…
Per Scorsese, è stato l'occasione per rendere
omaggio alla fonte di illusionismo intrinseca del cinema, con la
novità del 3D contribuisce a far riprovare al pubblico moderno il
ritorno al senso di meraviglia, una volta ispirato dai l film di
Méliès. Il 3D sarà il cinema di domani sarà stereoscopico - e
olografico, e interattivo?
Qualche riflessione sul Lavoro
di Jessy Simonini IV G
“La Repubblica riconosce a tutti
i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano
effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di
svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta,
un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o
spirituale della società”
(Articolo 4, Costituzione
della Repubblica Italiana)
Mi piacerebbe partire da qui. Da
queste due frasi che sono forse l’essenza vera della nostra
Costituzione, anzi dell’intera nostra Repubblica fondata, appunto,
“sul lavoro”.
I costituenti sapevano piuttosto
bene che cosa fosse necessario fare dopo vent’anni di fascismo:
ricostruire in primo luogo un nuovo paradigma culturale, basato su
parole e su concetti nuovi, su un lavoro che nulla ha a che fare con
il corporativismo imposto dalla società fascista ma che è, al
contrario, in grado di restituire dignità agli individui e alla
società tutta. Speravano, i costituenti, che la nuova Italia nata
dalle macerie del fascismo e della guerra, avesse come pilastro
fondante il lavoro inteso come unico mezzo di emancipazione per
milioni di cittadini, come unico strumento per raggiungere la
libertà.
A settant’anni di distanza, le
cose sono andate in modo diverso.
Nel 1970 fu introdotto il
controverso Statuto
dei lavoratori,
che pone l’accento sulla dignità del lavoratore, sulla sua libertà
d’opinione e di sciopero, garantendo tutele (o, secondo un
vocabolario diverso, privilegi) ai lavoratori del nostro Paese.
L’articolo 1, ad esempio, afferma che:
I
lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di
fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro
opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto
dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge.
L’articolo 8, invece:
E’ fatto
divieto al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione, come nel
corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare
indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose
o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini
della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore.
Lo Statuto
dei lavoratori
rappresenta dunque un’importantissima tutela per gli occupati del
nostro Paese; si tratta di regole che stanno alla base della nostra
civiltà, che stabiliscono diritti e doveri imprescindibili nelle
relazioni fra datori di lavoro e dipendenti, regole che è
impensabile, in un momento di acuta crisi come quella che stiamo
vivendo, indebolire o addirittura abolire come è stato più volte
paventato o proposto.
L’articolo 18, il quale prevede
il reintegro dei lavoratori licenziati illegittimamente nelle unità
produttive che hanno più di quindici dipendenti, non è che il
simbolo di una battaglia di civiltà e di libertà. In quest’ultimo
periodo è stato al centro del dibattito: da una parte, i suoi
strenui difensori (sindacati, sinistre), dall’altra, chi è
disposto a farne a meno (governo, destre). Ma quando parliamo di
articolo 18 parliamo di una tutela che non può, in un paese civile,
essere stralciata o abolita, perché i diritti e le tutele per i
lavoratori vengono sempre prima di ogni beneficio economico ed è
dunque sterile imbastire una discussione ideologica e senza risvolti
pratici sul tema. Mentre stiamo qui ad esprimerci contro o a favore
l’articolo 18, la disoccupazione giovanile è al 30%, l’assenza
di una politica industriale corposa e strutturata sta facendo perdere
terreno al nostro manifatturiero e quindi anche i tessuti produttivi
più robusti si stanno indebolendo, la cassa integrazione
straordinaria è spesso finita e i lavoratori vanno a casa. E’
notizia di questi giorni che l’Omsa di Faenza non chiuderà. Eppure
cento donne che nella loro vita altro non han fatto che produrre
calze si ritroveranno a casa, nel bel mezzo della crisi peggiore di
sempre, con il mutuo e le bollette da pagare.
Al contrario, è necessario
ripartire da una seria, condivisa riforma del mercato del lavoro. Le
proposte all’apparenza più efficaci oggi sono due: il pacchetto
proposto dal senatore democratico Pietro Ichino e quello, sempre
proposto dalla sinistra, a firma Boeri-Nerozzi.
Ichino, che da anni vive sotto
scorta per le minacce ricevute dalle Brigate Rosse, propone una
riforma che, nel quadro di quella che viene definita flexicurity-
unione fra flessibilità e sicurezza sociale- istituisca un contratto
unico a tempo indeterminato per i lavoratori, con un periodo di prova
di sei mesi e tutele crescenti nel tempo, rendendo però più facili
i licenziamenti e abrogando parzialmente l’articolo 18. Si
tratterebbe di una grande innovazione nel mercato del lavoro
italiano, in grado di aumentare la flessibilità e di garantire più
dinamicità al sistema produttivo, pur con meno diritti per i
lavoratori dipendenti e con tutele più deboli. Il datore di lavoro
potrebbe infatti licenziare liberamente il suo dipendente per un
qualunque motivo economico-organizzativo, e inoltre non ci sarebbero
limiti ai licenziamenti collettivi. Per i licenziati è prevista
un’indennità di disoccupazione tra il 60%-90% erogata dall’Inps
e dalle stesse imprese. Il tema appare piuttosto delicato, perché se
da una parte Ichino spinge verso un sistema semplificato e
innovativo, l’Italia non è la Danimarca e c’è bisogno di tutele
più forti, soprattutto in un momento di crisi come quello che stiamo
attraversando.
La riforma Boeri-Nerozzi, invece,
pur provenendo da due esponenti dello stesso partito di Ichino, ha
un’impronta radicalmente differente. Questo progetto di riforma
prevede un Cui (un contratto unico di inserimento a tempo
indeterminato) che per i neoassunti sostituisce i contratti a
termine. Inizialmente non sono previste le tutele dell’articolo 18,
che partono solo dopo tre anni dall’assunzione. Il dipendente che
viene licenziato nei primi tre anni gode soltanto di un’indennità
di disoccupazione che cresce nel tempo.
La
complessità del tema e della situazione che stiamo attraversando
impone una riflessione seria e ampia sul Lavoro e sui diritti dei
lavoratori dipendenti. Una riflessione che deve essere fatta fuori da
ogni recinto o barriera ideologica, senza preclusioni o totem. E’
innanzitutto necessario smetterla di parlare di questioni marginali
come l’articolo 18 (è paradossale parlare di licenziamenti quando
il vero problema è la mancanza di posti di lavoro) e bisogna invece
ripartire dai contenuti e soprattutto da una grande riforma che tenga
conto delle necessità delle imprese e dei dipendenti, facendo
essenzialmente due cose: semplificare la giungla dei contratti
precari e a progetto, verso la costituzione di un contratto unico
inclusivo e in grado di garantire tutele sufficienti e, in secondo
luogo, costruire nuova occupazione, soprattutto per le giovani
generazioni, in settori strategici per lo sviluppo di domani, come
green economy e cultura. Perché se muore il lavoro è la società
stessa che si decompone e si frammenta.
venerdì 15 marzo 2013
“NO MAFIA”, PALERMO E’ COSA NOSTRA
di Laura Tramuto, 3C
Qui, sull’autostrada Palermo-Mazara del Vallo, l’azzurro del mare
e l’odore di pesce fresco inebriano i sensi e la costa sembra pian
piano scomparire dietro a Monte Pellegrino, alle spalle del quale
nasce la città.
Una città piena di controversie, di contrasti e di scontri aperti e,
allo stesso tempo, celati dietro fiumi di parole non dette o
pronunciate a metà, dietro sguardi languidi ed arresi, dietro
illusioni temporanee e proiettili risucchiati nel silenzio di un
quartiere di periferia.
Beh, Palermo non è solo questo. È cultura, è storia, è civiltà,
è popolo che cerca di farsi con le sue stesse mani.
Lo sapevano bene i magistrati che per anni hanno combattuto per
questa città, perché venisse finalmente ripulita dal marciume che
la mafia le ha gettato addosso, e lo sanno anche i palermitani di
adesso, ma non ci credono più.
Accosto con la mia auto. Il motivo per cui hanno smesso di crederci è
scritto qui, su questa stele: “23 MAGGIO 1992 – GIOVANNI FALCONE,
FRANCESCA MORVILLO, ROCCO DICILLO, ANTONIO MONTINARO, VITO SCHIFANI”.
L’asfalto dell’A29, all’altezza dello svincolo di Capaci sembra
raccontare ancora le luci di quella tarda mattinata, quando il
giudice Giovanni Falcone, insieme alla moglie e agli uomini della sua
scorta, da Roma stava rientrando in città, dove gli si prospettava
un tranquillo week-end in famiglia.
Cento metri di polvere in un attimo offuscarono sudore e lacrime di
tanti uomini di giustizia, come il capo della squadra mobile di
Palermo, Boris Giuliano, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il
magistrato Rocco Chinnici; così, all’interminabile lista delle
vittime di Cosa Nostra, si aggiunge anche il nome di Falcone.
Dando un veloce sguardo alla montagna, si nota con chiarezza
l’indelebile scritta blu “NO MAFIA”, impressa a caratteri
cubitali sull’edificio dal quale Giovanni Brusca ha deciso
l’istante della morte del giudice palermitano, premendo con
scettica ed incerta risolutezza il pulsante che avrebbe azionato il
detonatore. Lui stesso, ora pentito, racconta di quegli attimi di
indecisione e titubanza, culminati poi nella tragedia di una scelta
sbagliata, di un pensiero confuso, di un’azione indotta.
D’altronde, anche i picciotti sanno di essere parte di un
ingranaggio tremendo e spietato, dal quale difficilmente si scappa e
si ritorna indietro, se non dando la vita, ma non vedono nessun’altra
via d’uscita: tutt’attorno solo ignoranza, povertà, degrado,
droga, malavita, corruzione. Niente futuro, solo presente, istante
dopo istante.
Questa realtà era quotidianamente sotto gli occhi del Falcone
bambino, nato nel quartiere della Kalsa, in cui il degrado e la
delinquenza si fondono con la cultura storica che ha in sé origini
arabe. Lo si può vedere dai cortili delle case piccole e basse, dai
vicoletti stretti e angusti e dai colori terrosi che rivestono i
muri. È qui che nel 1939 nacque il magistrato che, dopo essere
venuto a contatto diretto con la criminalità organizzata, ebbe il
coraggio di discostarsi dal mondo a cui apparteneva, per combatterne
l’immoralità e la disonestà e proteggere la vera identità
palermitana.
Una lotta alla mafia durata una vita, una vita spesa in magistratura
fra atti d’inchiesta e interrogatori, indagini e confessioni di
pentiti, processi e condanne, una vita al servizio della legge e
della giustizia, segnata dalla rilevante partecipazione al Pool
Antimafia, dall’intenso dialogo con il pentito Tommaso Buscetta e
dall’istituzione del primo grande processo contro la mafia, il
cosiddetto Maxiprocesso che conta 360 condanne per 2665 anni
di carcere e che costituisce un grande successo storico per la lotta
a Cosa Nostra.
Il giudice Giovanni Falcone si trovò al proprio fianco un
collaboratore di fiducia, un collega tenace ed un amico dal valore
inestimabile: Paolo Borsellino. Stesse radici, stesse origini, stessi
ideali, stessa guerra.
Continuo il
mio percorso, svincolo via Belgio: attraverso la Fiera del
Mediterraneo fino a giungere a casa di Roberta, destinazione via
d’Amelio. È una strada senza uscita, lunga appena cento metri, con
corsie molto larghe e marciapiedi sconnessi. Fra i colori delle
macchine, mi sembra ancora di scorgere la Fiat 126 che, in una
qualsiasi domenica pomeriggio di luglio, venne fatta esplodere dal
Castello Utveggio.
19 luglio
1992 è la data che riporta la lapide su cui sono incisi i nomi di
PAOLO BORSELLINO, AGOSTINO CATALANO, EMANUELA LOI,
VINCENZO LI
MULI,
WALTER EDDIE COSINA
E CLAUDIO TRAINA,
caduti qui di fronte all’enorme edificio in cui abitava la madre
del magistrato palermitano.
Calpestando
questo marciapiede, sembra di sentire il boato assordante, provocato
dai cento chilogrammi di tritolo esplosi, la grida della folla
accorsa, le sirene spiegate della polizia: un rumore ovattato, che mi
riporta ad un’altra dimensione; eppure sembra tutto così
realistico, per quanto lontano. Palermo rivive ogni giorno quei
momenti, quegli istanti di panico e terrore, quei frangenti di
abbandono e resa.
«Convinciamoci
che siamo dei cadaveri che camminano»,
disse lo stesso Borsellino, poco prima di morire, avendo in bocca già
quell’amaro sapore di sconfitta.
A poche
settimane dalla morte di Falcone, la strage di via D’Amelio:
cos’altro ancora? Una Palermo in ginocchio, devastata dalle guerre
fra mafia e Stato, dalle stragi, dagli spari continui e mitraglianti,
veniva blindata e le forze militari invadevano ogni angolo della
città, per dare una risposta forte e decisa alla mafia, segno di
una nuova consapevolezza e di una riacquisita fiducia nei confronti
dello Stato.
Come
testimonia l’Albero, sotto l’abitazione di Giovanni Falcone in
via Notarbartolo, a lui dedicato e interamente ricoperto di fiori,
foto e scritte, i giovani di oggi ci credono nella battaglia contro
la mafia, pur rendendosi conto della complessità di questo fenomeno
umano e del fatto che è profondamente radicato nel tessuto sociale
della Sicilia più oscura e illegale; ma, come Falcone affermava, «La
mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i
fatti umani ha un inizio, e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna
rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e
che si può vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma
impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle
istituzioni».
La meschinità della mafia sta nel nascondere
la mente aristocratica, benestante e acculturata della politica
dietro alle braccia dell’ignoranza e della delinquenza, determinata
da una profonda povertà materiale e ideale.
Palermo ha tante facce: criminalità
organizzata, culture variegate, mentalità diverse, ma -di certo- la
Palermo in cui sono nata scrive la parola “mafia” in minuscolo.
Canzone di Fabrizio Moro, Pensa
“ Ci
sono stati uomini che hanno denunciato
il più corrotto dei
sistemi troppo spesso ignorato.Uomini o angeli mandati sulla
terra per combattere una guerradi faide e di famiglie sparse come tante bigliesu un isola di sangue che, fra tante meraviglie
fra limoni e fra conchiglie, massacra figli e figlie
di una generazione costretta a non guardare,a parlare a bassa voce, a spegnere la luce,a commentare in pace ogni pallottola nell'aria,ogni cadavere in un fosso.Ci sono stati uomini che […]
contro un'istituzione organizzata,
cosa nostra, cosa vostra, cos'è vostro?
è nostra la libertà di dire
che gli occhi sono fatti per guardare,
la bocca per parlare, le orecchie ascoltano non solo musica.
Ci sono stati uomini[…] consapevoli che le loro idee
sarebbero rimaste nei secoli come parole iperbole
intatte e reali come piccoli miracoli
idee di uguaglianza, idee di educazione
contro ogni uomo che eserciti oppressione,
contro ogni suo simile, contro chi è più debole,
contro chi sotterra la coscienza nel cemento.
Ci sono stati uomini che hanno continuato
nonostante intorno fosse tutto bruciato,
perché in fondo questa vita non ha significato
se hai paura di una bomba o di un fucile puntato.
Gli uomini passano e passa una canzone,
ma nessuno potrà fermare mai la convinzione
che la giustizia non è solo un'illusione “
hanno
lasciato un segno con coraggio e con impegno,
Un cancro radicato nella nostra terra
di Edoardo Mazzini, II I
Vincitori oggi, vinti domani
di Sabina Grossi, 3B
Con dispiacere e
rabbia, ogni giorno constato la tendenza -dilagante e sempre più
pericolosa- non solo all’indifferenza, ma alla totale e illusoria
auto-convinzione di non aver nulla a che vedere con la Mafia.
Essa è infatti
avvertita, dalla maggior parte delle persone che mi circondano,
costantemente come un’entità lontana, indefinita, innocua, come un
problema che non ci riguarda da vicino. E io ritengo che questo sia
l’errore più stolto e riprovevole che ognuno di noi possa fare.
Sfatiamo questo falso mito, la Mafia non è un siciliano minaccioso,
armato di coppola e sigaro, che chiede il pizzo agli artigiani del
suo Paese; non è un boss napoletano che si nasconde in un bunker e
gestisce illegalmente un’organizzazione criminale; non è il
latitante arrestato dopo trent’anni di fuga dalle Forze
dell’Ordine; la Mafia non è più solo questo: come la nostra
storia recente testimonia, un mafioso può anche lavorare alla luce
del sole, dietro una scrivania o seduto su una poltrona di un
qualsiasi ufficio, pubblico o privato, celato dietro le apparenze e
protetto dai pregiudizi che molti di noi tuttora hanno rispetto alla
realtà mafiosa. La Mafia non è il Sud. La Mafia non ha una razza,
un volto, un accento.
La Mafia è ogni
tipo di atteggiamento che, attraverso la violenza e l’illegalità,
nuoce alla comunità. Si parla dei meridionali come se fosse a loro
connaturato questo status, fingendo, per paura, di non essere fatti
tutti allo stesso modo, di non avere la medesima natura, di non
essere nel cuore e nella mente tutti uguali. Con questa viltà
diffusa e con la mancata accettazione della realtà noi collaboriamo
tutti i giorni alle vittorie della Mafia, che divora, avida e
insaziabile, tutto ciò che è umano, come la dignità, il rispetto
per il prossimo, la ragione.
Svegliamoci
dal sonno, smascheriamo la verità che oziosamente non abbiamo
indagato, e insieme costruiamo una coscienza comune all’insegna
della legalità, della collettività e della libertà! Siamo tutti
vittime della Mafia, direttamente o indirettamente, e per questo non
abbandoniamo le realtà più colpite, perché difendere la vita dei
più deboli significa garantirla a tutti!
JOSEPH KONY, E’ ORA DI AGIRE.
“Nothing
is more powerful than an idea whose time has come. Nothing is more
powerful than an idea whose time is now”. (“Niente
è più forte di un’idea il cui tempo è giunto. Niente è più
forte di un’idea il cui tempo è ora”)
È con queste due frasi che inizia il video di Jason Russell,
fondatore dell’associazione no - profit “Invisible Children”,
il cui scopo è quello di porre fine alle atrocità causate da Joseph
Kony. Kony è il leader di un’organizzazione criminale, la
LRA:Lord’s Resistance Army, molto violenta, formata da un gruppo
di attivisti ribelli che agiscono terrorizzando e massacrando senza
nessuna pietà i civili dell’ Uganda del Nord. L’associazione
“Invisible Children” è stata ufficialmente riconosciuta nel
2006 trovando con il passare degli anni crescenti consensi, tra i
quali anche quello del presidente degli Stati Uniti Barack
Obama.
Il video si può facilmente trovare su Facebook o su Youtube
digitando “Joseph Kony 2012”. In questo
(Nel) video si denunciano i crimini disumani di questo dittatore
(non credo sia un dittatore!”criminale? e
mettiamo delitti al posto del precedente “crimini?”) ,
che, da circa 26 anni, propaga il terrore nella parte settentrionale
dell’Uganda e in particolare nel Gulu. Il filmato, che scadrà il
31 Dicembre 2012, incita le persone a diffondere il nome di Kony per
fare in modo che tutti siano messi al corrente della crudeltà
perversa di quest’uomo; infatti, attualmente, il novantanove
percento della popolazione mondiale non ne conosce nemmeno
l’esistenza.
Kony per 26 anni ha rapito i bambini per introdurli nel suo gruppo
di ribelli LRA, le bambine e le ragazze per trasformarle in schiave
del sesso e i ragazzi per farli diventare dei soldati: questi sono
costretti ad uccidere le loro stesse famiglie;
non di rado Kony muta i loro connotati facciali in modo
brutale, facendoli diventare dei mostri, sia fisicamente che
psicologicamente ed emotivamente. Ciò
E’ accaduto a circa 30.000 bambini ( dal 1987 a oggi): è ora che a
questi innocenti sia concesso di svegliarsi dall’orribile incubo
che vivono ormai da troppo tempo e di ritornare alle loro famiglie;
deve essere loro permesso di riprendersi l’infanzia, di tornare a
sorridere, a giocare, a non aver paura di essere rapiti, stuprati o
uccisi in ogni singolo momento, devono poter riuscire a dormire di
notte senza pensare a chi dovranno uccidere la mattina seguente,
devono tornare bambini. Kony non combatte per alcun motivo
apparente (forse “senza alcuna
giustificazione come pretesto”), vuole solo mantenere il suo
potere, non è supportato da nessuno e ha più volte usato i
comunicati di pace per riarmarsi e continuare ad uccidere. Joseph
Kony, dunque, agisce non solo contro la legge, ma contro l’umanità.
Le accuse per le quali è identificato come uno tra gli uomini più
pericolosi al mondo riguardano sia crimini contro l’umanità che
crimini di guerra, e includono : stupro, rapimento, schiavitù
sessuale, maltrattamento, omicidio, sfruttamento minorile,
saccheggio, attacco intenzionale a civili, violenze, mutilazione e
persino cannibalismo. È per questo motivo che Kony è il primo
accusato dall’ ICG (International Crisis Group). Il governo
americano , seppur a conoscenza delle atrocità subite dai civili
ugandesi, inizialmente non ha voluto intervenire perché i crimini di
Kony non danneggiavano in alcun modo le attività politiche o
economiche del paese. Jason Russell, però
(io metterei tuttavia o “d’altro canto”,
che sono avversative forti e quindi passibili di virgole
parentetiche), ha voluto dimostrare che la gente era
interessata, che sapeva, riunendo così in tutta l’America gruppi
di manifestanti. Egli si è rivolto nuovamente al governo, parlando
sia con i Democratici che con i Repubblicani, ma, al contrario della
prima volta, in questo caso è stato ascoltato. Quindi il 14 Ottobre
2011 gli USA hanno acconsentito a partecipare attivamente alla lotta
contro i terribili soprusi di Joseph Kony, prendendo in questo modo,
per la prima volta nella storia degli USA, una decisione non per
(a scopo di) autodifesa, ma perché era
giusto, perché era la gente a chiederlo. E tutto ciò è avvenuto
grazie a un breve discorso di Obama che autorizzava un centinaio di
volontari americani a fornire supporto militare alle truppe ugandesi.
Riporto
qui di seguito il discorso dl Presidente:
“ In appoggio della politica del congresso ho autorizzato un
piccolo numero delle forze statunitensi a schierarsi in africa
centrale per dare assistenza alle forze regionali che stanno
lavorando alla rimozione di Joseph Kony dal campo di battaglia.
Cordiali saluti Barack Obama.”
Dunque, con l’aiuto dell’esercito degli USA e con la
partecipazione di numerosi gruppi di protesta ( tra i quali il più
importante è il TRI) si è potuto ricostruire quello che Kony aveva
distrutto ( scuole, posti di lavoro, case, interi villaggi ecc).
Tuttavia i problemi persistono: infatti Kony, venuto a conoscenza
dell’intenzione degli USA di arrestarlo, è
diventato più difficile da catturare (io
metterei una frase del tipo “si è dato alla macchia” ),
ha cambiato le sue tattiche, e perciò sono divenuti necessari
militari ben addestrati e strumenti ad alta tecnologia: dunque ora
più che mai il supporto internazionale è essenziale. Eppure questo,
qualora non fosse più evidente che la gente è interessata,
coinvolta, determinata a far cessare gli orrori in Uganda, potrebbe
essere ritirato.
Bisogna allora dimostrare che la cattura di Joseph Kony non è solo
nell’interesse dell’Uganda, ma di tutto il mondo, e per fare ciò
bisogna innanzi tutto rendere famoso l’orribile stragista. Il suo
nome deve essere dappertutto, non per venire celebrato, ma perché i
suoi crimini siano messi in luce. A questo scopo si è chiesto
l’aiuto di celebrità, atleti, artisti , miliardari, e soprattutto
di politici cha abbiano l’autorità di far arrestare Joseph Kony.
Quando migliaia di persone chiedono al governo di fare qualcosa, ciò
diventa di interesse nazionale, ed è questo che le associazioni
gestite da Jason Russell e dai suoi collaboratori stanno cercando di
fare. Taluni hanno detto: “Non stiamo solo studiando la storia
dell’umanità, noi la stiamo plasmando”. Sono d’accordo. Non
limitiamoci a conoscere le terribili verità di questo mondo, ma
agiamo per eliminarle.
Qui
di seguito il link nel quale troverete maggiori informazioni:
KONY2012.com
Quest’anno nella lotta contro Kony, il giorno di
maggiore importanza sarà il 20 APRILE 2012, nel quale per tutta la
notte i sostenitori del TRI, dell’associazione “Invisible
Children e tutti quelli contro i crimini in Uganda commessi da Joseph
Kony tappezzeranno tutte le più importanti città del mondo di
volantini, poster e adesivi per far si che il pianeta possa iniziare
a rendersi conto e ad agire di conseguenza. Il
20 Aprile anche a Bologna ci sarà l’incontro per combattere Joseph
Kony. Il ritrovo è in Piazza Maggiore dalle 21 alle 23:30.
Combattiamo per
la pace!
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