martedì 14 maggio 2013

         ESCE IL PROMETEO CARTACEO!

       ti aspettiamo domani a scuola al primo e         
                            secondo intervallo per l'ultima                       
                                                   edizione dell'anno!

domenica 17 marzo 2013



                           Utopia


di Claudia Ansaloni

 Eravamo cento nel battaglione Totengeschichte. Durante gli allenamenti ci muovevamo a cerchi, intonando nenie ben ritmate e senza alcuna polifonia di fondo. I nostri passi solcavano la neve alta fino al ginocchio con la stessa cadenza con cui mesi dopo aravano i campi; ci avevano abituati a camminare a piedi nudi fra le stoppie e a pestare i prati nei temporali estivi ingrassati dai gelsi e dai lombrichi. Così, con la maturità, passavamo periodi discontinui nell’arma, tra i cicli di lezione e le festività dello stato. Ricordo quell’età con dolcezza e malinconia.

La scuola si spostava di mese in mese per tutta l’Europa. Lo stato a quel tempo godeva della floridità dei suoi primi giorni di vita. Ci spostavamo dalle aule fredde degli antichi monasteri alle rovine di ferro delle fabbriche. Quando ce n’era la possibilità, il nostro gruppo si mescolava con altri gruppi che circolavano in quelle regioni e organizzavamo insieme le lezioni. Per tredici anni le ragazze viaggiavano separate, ma poi, compiuti i quattordici, ci mescolavamo, avendo seguito un’educazione dai modi diversi ma con gli stessi obiettivi. Da quel momento si iniziava ad abitare con frequenza nelle città, che si popolavano dei nostri lamenti, dei nostri sogni e delle nostre scorribande. Quelli che una volta erano i musei postmoderni, bianche balene arenate sul cemento, erano stati vuotati e adibiti a discoteche, nei quali, dopo i diciassette anni, potevamo ballare e celebrare la notte. Gli oggetti d’arte erano tornati agli ambienti che li avevano incubati, palazzi, soffitte, giardini, le esedre scure delle cappelle di famiglia nelle chiese, i balconi aperti sui colli. Tutto, del resto, era stato strappato alla proprietà privata ed ripensato perché il nostro occhio se ne potesse accrescere, alimentare. Sin da quando entravamo nel percorso di educazione voluto dallo stato infatti, prima, cioè, che noi nascessimo, dovevamo connaturarci ai luoghi evocativi della storia dell’Europa, in modo che essa fosse sempre palpitante, scalciante di vita. Dovevamo studiare all’aria aperta, conoscere i boschi delle battaglie centenarie, battere con scrupolo i confini passati dei fiumi, fiutare il prurito dell’aria nordica, e sorseggiare i liquori dell’afa meridionale. E soffiare sui libri delle biblioteche secolari, ripassare angosciati, senza poter eppure evitare di distrarci, sotto la luce nelle cattedrali, poter scambiare aneddoti ed esperienze con classi di ogni cultura nazionale ed età, sperimentare per necessità le lingue, ci rendeva partecipi di un’esperienza eccellente di studio comune a tutti i giovani europei. Le materie di base erano sette: matematica, musica, fisica, biologia – e un particolare rilievo era posto alla genetica -, storia, letteratura e retorica. La storiain particolare, e questo fu un aspetto cardinale per la solidità stessa dello stato, faceva confluire i rami dello spirito e della tecnica in un unico fusto, cosicchè contemporaneamente dissertavamo sui filosofi e dissezionavamo l’innesco della polvere da sparo. Infatti, lo stato si reggeva sull’unione di due moti del carattere europeo, l’ingegno pratico e l’amore contemplativo, che qualche vecchio spocchioso voleva separati, ma che lo stato vedeva funzionanti come due timpani ai lati di una testa. Nella letteratura, inebriante era lo spazio dedicato alle parole religiose, specialmente quando capitava di ascoltarle sul riflusso di una spiaggia o nel chiacchiericcio serale dei grilli l’estate; leggevamo la Bibbia integralmente e tutti i miti pagani, nonché qualunque brano coranico ci consigliassero i nostri compagni musulmani. Della retorica poi, erano indispensabili gli anni della grammatica greca e di quella latina, e l’analisi filologica dei testi classici. Il senso della misura ti segnava la vita, come un epitafio.
Nel frattempo marciavamo, imparavamo a condividere le tende e ad armare le barche.
Noi ragazzi a diciotto anni iniziavamo a prestare servizio nell’esercito, le ragazze avevano ricevuto invece già sporadici addestramenti paramilitari, e da allora il loro contributo nel corpo diveniva volontario. Piuttosto, erano indirizzate a curare la diplomazia tra le nazioni, ed anche fuori dall’Europa. Della loro abilità e finezza, così curate dalla loro formazione, ne godevano le relazioni dell’Alleanza Boreale e gli equilibri con gli altri popoli del mondo. Allo stesso modo, anche noi dovevamo essere in grado di rinfrescare in ogni momento i tavoli assembleari con la nostra presenza, portando acume e prospettive brillanti. Questo chiedeva lo stato da noi, che maturassimo completi.

Ma poi avvenne quell’episodio che non dimenticherò mai, e che mi tranciò l’esistenza come un mietitrebbia passa un topolino. Mi ritrovavo dunque impegnato, appena ventenne, in una missione politica che doveva placare le inquietanti ombre di una sedizione, che veniva dal basso, da quelle anime grezze che lo stato aveva scartato. Esse erano i nostri schiavi, uomini stupidi e insensibili, che svolgevano compiti ripetitivi o di contatto col denaro - le pratiche burocratiche, il commercio e l’imprenditoria: mentre noi cercavamo l’oro più vero, loro fin da adolescenti si erano rivelati tartufi di quella razza. Erano una massa lercia, brulicante e in continua riproduzione. Mi avevano dunque convocato a una riunione del partito, dove discutere sul da farsi.
Si trovava sul relitto si un transatlantico infossato tra le dune di un lungomare vuoto e bellissimo. Lontano, la linea blu del mare inscuriva sul giallo da una parte e sul celeste dall’altra. Il sole era così alto che non potevo vederlo. Dopo una prima discussione, prendevamo una pausa sul ponte imbiancato di luce. E tutto era gala, tutto era grazia e bellezza, io nella mia lunga divisa nera, col teschio che mi rideva sopra la fronte, e i bicchieri che risuonavano vetro, le onde rosse dei vini, le mie palpebre che si rilassavano nella calma piatta – e quel mare là in fondo, apollineo e fosco.
Ebbene, lungo il mare c’era una ferrovia.
Ad un certo punto risvegliammo i nostri cannoni presso la plancia, quando il treno tagliò l’orizzonte. Vidi degli uomini in quella stringa nera fumante, battere le mani fuori dalle loro sbarre, udii qualcosa come un urlo, ma non più forte del vento sui bicchieri. Puntarono i cannoni, e quando il treno ci fu davanti spararono. La striscia incendiata sfrecciò lungo il mare, mentre le donne ridevano come angeli, e gli uomini levavano i calici.
Mai vidi una cosa più crudele e più bella.

La guerra poi dei neri d’Africa si mescolò alla nostra, con l’orrore che ora porterò al camposanto.




sabato 16 marzo 2013

cinema


Hysteria – recensione di Odo Paganelli.


Sono in pochi a sapere che il vibratore fu inventato quasi per caso da un giovane medico londinese che, verso la fine dell'Ottocento, curava "manualmente" donne benestanti e insoddisfatte che si supponevano affette da isteria e da un suo amico appassionato della neonata scienza elettrica, l’elettro shock . Ma ora la regista Tanya Wexler a reso questa storia pubblica e molti ne sono rimasti affascinati.
La commedia è ambientata nella Londra vittoriana in preda alla rivoluzione industriale del 1880. Il brillante giovane dottore Mortimer Granville è in cerca di un nuovo lavoro. Lo trova presso il Dottor Dalrymple, specializzato nel trattamento dei casi di isteria. Dalrymple convinto del suo metodo cura le "isteriche" con una terapia scandalosamente efficace: il "massaggio manuale" sotto le gonne delle sue pazienti. Il dottore, però, deve lottare contro la fiera disapprovazione della figlia Charlotte, sostenitrice dei diritti delle donne. Mortimer decide di affinare il metodo terapeutico: quando il suo amico Edmund gli rivela il progetto del suo nuovo spolverino elettrico, gli viene in mente un'idea più che geniale.
Mortimer è inizialmente attratto dalla figlia più giovane di Dalrymple, Emily (Felicity Jones), ma è finalmente conquistato l'indipendenza da Charlotte (Maggie Gyllenhaal – di cui ricordiamo la magistrale interpretazione in Crazy Heart acanto a Jeff Bridges). La sceneggiatura mostra goffamente Mortimer e Charlotte come due persone che già sanno di essere in un tempo rivoluzionario. Per Mortimer, si tratta di una rivoluzione scientifica (la teoria dei germi e le condizioni sanitarie) , mentre Charlotte esprime ad alta voce la sua convinzione che sta vivendo in un’epoca rivoluzionaria per le donne. Il modo in cui i personaggi discutono sul loro presente, è irreale come se avessero parlato con qualcuno venuto dal futuro.
Il personaggio di Charlotte è troppo moderno ed esagerato nei suoi atteggiamenti, secondo me per evitare la possibile critica che la trama sia troppo maschilista ed usi il gentil sesso solo come oggetti per la commedia.

Hysteria è una commedia tipicamente britannica ironica e brillante e come dicono i titoli di testa "Quanto segue è basato su eventi realmente accaduti”.
Nel complesso un film semplice con ritmo allegro con brio che scorre via e la cosa peggiore che puo’ fare e farvi girare gli occhi.

intervista


Intervista a due membri del gruppo Pic

Di Yvonne Tullini 2^H

Se avete letto l’ultimo numero del Prometeo, saprete sicuramente che è nato un nuovo gruppo all’interno del nostro bene amato liceo.In breve si tratta dell’acrostico di Proposta Informazione e Confronto, e in occasione di ogni incontro si discute di temi di attualità. Ecco una doppia intervista, composta da un membro presente fin dal primo incontro e da un altro, membro ufficiale da qualche incontro.

D: Daniele Grillo
M: Maria Chiara Veronesi

  1. Come siete venuti a conoscenza del gruppo PIC?

D: Ne sono venuto a conoscenza tramite la cogestione tenutasi il 30 novembre 2011, in occasione della lezione in aula A1.
M: Il mio compagno di classe,Daniele Grillo, me ne ha parlato e ha voluto coinvolgermi e ne sono stata subito entusiasta.

  1. Che cosa pensate di ottenere partecipandovi?

D: Ritengo che il gruppo permetta una partecipazione più attiva da parte degli studenti stessi e che sia un’occasione per cooperare maggiormente. Inoltre si è in grado di proporre le proprie idee e/o iniziative e discutere tra studenti.
M: Penso che sia un modo per venire a conoscenza delle problematiche della scuola e quindi per cercare di risolvere.

  1. Apportereste modifiche in quale campo in particolare della politica nazionale, europea e mondiale?

D: Per quanto riguarda la politica italiana migliorerei il sistema politico, in un certo senso rendendolo più giovane, e nel campo europei vorrei più collaborazione tra i paesi che compongono l’unione europea.
M: Dal punto di vista italiano, ritengo che ci sia bisogno di un maggiore interesse verso i giovani e il loro futuro e inoltre favore l'integrazione politica delle donne.

  1. Quali sono secondo voi i vantaggi nello svolgere le assemblee d’istituto all’interno dell’istituto stesso, essendo questo uno degli obiettivi principali del gruppo?

D:Sono convinto che questa modifica ha come risultato una minore spesa (circa di 1000 euro) e una partecipazione più attiva, in quanto gli studenti hanno maggiore scelta e possono essi stessi proporre un tema sul quale discutere.
M:maggiore scelta delle tematiche, delle attività da poter svolgere e la possibilità di un dialogo molto più diretto sia fra noi giovani sia fra professori.

  1. Quali sono a vostro avviso i vantaggi del booksharing?

D: Il book sharing consente di rendere attive tutte le biblioteche del Galvani.
M: A mio parere permette di migliorare e potenziare lo scambio tra studenti e sicuramente un notevole risparmio.

  1. Quali altre obiettivi porreste al gruppo da raggiungere, quindi in quali altri campi approfondireste?

D: cineforum e attività culturali in modo da coinvolgere gli studenti della nostra scuola ad un'attività di approfondimento su argomenti normalmente poco trattati.
M: vorrei avviare un progetto per sensibilizzare gli studenti alle problematiche ambientali, impegnandosi in iniziative da proporre in ambito scolastico.

  1. In che cosa consiste un banchetto informativo?
D e M: un punto dove scambiare con gli studenti informazioni su iniziative, proposte e progetti inerenti al nostro gruppo.

  1. Siete soddisfatti della modalità con cui vengono affrontate le tematiche proposte dal gruppo oppure vi porreste qualche modifica?

D e M: siamo pienamente soddisfatti di partecipare a questo gruppo che riteniamo una fonte di nuove proposte e nuove amicizie, anche se sarebbe bello una più ampia partecipazione.

  1. Consiglieresti a tutti una calda partecipazione?

D e M: assolutamente si, in modo tale da poter provare a migliore il Galvani sotto molti aspetti e crediamo che nessuno si pentirà della sua partecipazione. 

Voti ai professori


Ecco i voti  che sono saltati fuori in un'intervista agli alunni delle classi 3 H, 3 T e 3 I sui professori...


Emanuela Alessandrini (inglese) 
3, 8, 8, 8, 6, 7 
Falqui Massidda Stefano (filosofia) 
10, 9, 9, 9, 8, 10, 9, 9, 8 
Coronato Antonio (italiano, latino, geografia) 
10 
Paola Giacconi (matematica, fisica) 
8, 9, 9, 10 
Francesca Salvatori (italiano, latino, geografia) 
5, 7, 6, 5, 6, 8, 5, 6 
Manja Finnberg (tedesco) 
7, 7, 7, 7, 4, 4, 7, 6 
Riccardo Carli (religione) 
9, 10, 10, 10, 8, 8, 9 
Michele Tosi (storia dell’arte) 
7, 9, 9, 9, 10, 4, 8, 7 
Laura Poletti (scienze) 
8, 8, 9, 10 
Karsten Hoffmann (tedesco) 
8, 7, 7, 7, 6, 7, 6, 8 
Stefania Bottazzi (educazione fisica) 
9, 8, 8, 9, 4, 4, 9, 6 
Elisabetta Farneti (italiano, greco, storia, latino, geografia) 
9, 9 
Annamaria Felisa (scienze) 
9, 8, 6, 9 
Heriberto Calvello (matematica, fisica) 
6, 7, 7, 7 Claudia Rambelli (inglese) 
8, 9 
Monica Moriconi (spagnolo) 
8, 9 

di Carlotta Ferri

Musica


Il meglio del peggio

Qualche band italiana che vale la pena conoscere

di Anna Viceconti


Questo articolo nasce in risposta a tre fenomeni spiacevoli: il mio vicino di casa che ascolta a ripetizione Ligabue, il Festival di Sanremo e la classifica “i 100 migliori dischi italiani” pubblicata da Rolling Stone Italia.
Sembra che tutte queste persone- i 10 milioni di spettatori incollati a guardare la farfallina di Belen, quei burloni dei critici musicali e il vicino- abbiano spento la radio vent’anni fa e non l’abbiano più accesa. Perché da metà degli anni ’80 in poi il Belpaese Sull’Orlo del Burrone ha prodotto una serie di band eccezionali, che però hanno circolato solo sul mercato underground per parecchio tempo. Non possiamo più permetterci di fare gli alternativi e dichiarare con candido snobismo che “la musica italiana fa tutta schifo”. Ecco un piccolo riassunto del meglio che c’è stato dagli anni ’90 ad oggi a riprova del fatto che, tra i cantautori del premio Tenco ed il duetto Gigi d’Alessio- Loredana Benson Bertè, c’è di mezzo il mare.

STORICI(1990-2000)
Nel resto del mondo impazzavano i Nirvana, i Pearl Jam, i R.E.M.; l’Italia affogava nella “Milano da bere”. E proprio a Milano nel 1997 esce il secondo disco in italiano degli Afterhours, che per molti anni avevano scritto e cantato in inglese. L’album si intitola Hai paura del buio?, ed è un capolavoro sospeso tra il grunge e l’hard rock. Elementi base: testi poetici e disincantati (Voglio una pelle splendida e la mitica Sui giovani d’oggi ci scatarro su, dedicata agli pseudo-alternativi-figli di papà che incontriamo tutti i sabato ai Giardini Margherita), base ritmica potente (Male di miele, Veleno), la voce indimenticabile di Agnelli (Come vorrei).
Nello stesso anno esce Piccolo intervento a vivo, il primo disco dei Tre Allegri Ragazzi Morti capitanati dal fumettista Davide Toffolo. Al contrario degli Afterhours i TARM non pagano tributo a nessuna band grunge, anzi si distaccano dalla tradizione precedente rendendosi impermeabili ad ogni generalizzazione. L’album contiene alcuni pezzi fondamentali (Hollywood come Roma, Alice in città) e un elemento che si definirà meglio nella canzone Mai come voi del ’99: il disagio. Se gli Afterhours colgono l’ipocrisia borghese delle grandi città, Toffolo e compagni sono i primi a descrivere con affetto e realismo l’adolescenza, la ferita non rimarginabile tra padri e figli, la ricerca di identità. Altri pezzi da ascoltare obbligatoriamente: Il mondo prima, Ogni adolescenza, Prova a star con me un altro inverno a Pordenone, La poesia e la merce, La ballata delle ossa.
RECENTI(2000-2010)
Qui abbiamo veramente l’imbarazzo della scelta. Nel 2002 proprio a Bologna si formano i Marta sui Tubi, degni eredi degli Afterhours ma con qualche elemento rock in più ( l’originalità aritmica di Perché non pesi niente e di Cinestetica). I Marta recuperano il meglio del rock passato (il blues di Vecchi difetti), ma anche le loro radici siciliane (il ritmo da tarantella di Di Vino). E sempre dalla Sicilia sbocciano i Pan del Diavolo, che pubblicano i loro ep con La Tempesta, la casa discografica indipendente fondata dai Tre Allegri Ragazzi Morti. I Pan del Diavolo sono taranta in versione rock, con una potenza vocale e melodica veramente notevole (ascoltatevi Coltiverò l’ortica, Il Boom, Pertanto e la nuova Farò cadere lei).
Ma la rinascita passa anche e sempre per il Nord: sono di Genova gli Ex-Otago, che nel 2003 pubblicano The Chestnuts Times riscoprendo una cosa chiamata pop. Le canzoni più belle sono però contenute nell’ultimo album, Mezze Stagioni: da Una vita col riporto a Figli degli hamburger i testi presentano una nazione provinciale ed insoddisfatta, chiusa in desideri infantili e frustrati. E se quest’ultima frase già vi fa venire la depressione allora rinunciate ad ascoltare i belli, incazzatissimi e musicalmente estranianti Ministri: tutto il disagio sociale che respiriamo in questi anni è un nervo a fior di pelle per questi ragazzini milanesi, che si sfogano negli album I soldi sono finiti, Tempi Bui e Fuori. Rimangono impressi nel cervello i versi di Noi Fuori: Noi fuori dai campi dell’orgoglio e dall’ansia di medaglie/Noi fuori siamo l’acqua sprecata ai confini dei deserti/Fuori dai cortei, dalla burocrazia, fuori dalle fabbriche e dai musei/E’ dall’alto che ci sparpagliano, è là in alto che inventano il pericolo/Noi fuori dalle radio, dai minuti di silenzio,/dai conteggi, dal consenso, dai sondaggi, dalle scuole di nostro signore,/dalle aiuole, dai cantieri/Noi fuori non sappiamo cosa fare. Brividi.
FRESCHISSIMI (2011-work in progress):
Continuando sulla scia del pop i deliziosi Eva mon amour, che hanno attirato l’attenzione del pubblico solo nel 2011 con il disco La malattia dei numeri: siamo lontani dal rock dei Marta sui Tubi e più vicini a quegli scoppiati delle Luci della centrale elettrica. E’ iniziata l’epoca dei versi lunghissimi e della completa disillusione, e questa band di Velletri riesce comunque a mantenere l’equilibrio perfetto tra parole e melodia; vedi le canzoni Prometto, Il giorno dopo, Tutto quello che vuoi e la bellissima La tua rivoluzione. Ma a mio parere il meglio deve ancora venire e arriva con L’orso, duo creato da Mattia Barro e Tommaso Spinelli. I ragazzi hanno pubblicato due ep (L’adolescente e La Provincia) prima autoprodotti, poi attraverso l’etichetta indipendente Garrincha Dischi. Non c’è la rabbia degli anni precedenti ma una consapevolezza molto più profonda della situazione in cui stiamo sprofondando (di cosa vuoi che ti parli che ho poco più di vent'anni?/se alle crisi mondiali preferisco i tuoi sguardi/se ho appena iniziato la mia carriera da precario/e non avrò mai te o la mia amata pensione), e soprattutto c’è una grande inventiva dal punto di vista musicale (la tromba grandiosa in Invitami per un tè, il parlato di Per quanto lontano abiti).
La chicca finale arriva da Bologna, e si chiama Lo stato sociale. Non sono il solito gruppetto elettronico del cazzo, voci fredde e testi banali: sono un’esplosione elettro-pop di ironia ( Magari non è gay ma è aperto, Sono così indie) e di malcontento (mi sono rotto il cazzo che non sono d’accordo con te/ma morirei affinchè tu possa dire la tua stronzata/che poi i nazisti sono giovani che amano la politica/i comunisti prendono a modello Cristo e i preti contestualizzano bestemmie, dalla spassosa Mi sono rotto il cazzo). Ascoltatevi anche Amore ai tempi dell’Ikea e Abbiamo vinto la guerra, scritta in era Berlusconi e che suona come una profezia.

La cosa più sorprendente? Cercando materiale per l’articolo ero arrivata ad una ventina di band, ho dovuto eliminarne più della metà per mere ragioni di spazio. Rimangono fuori i più noti Baustelle e Marlene Kuntz, il Teatro degli Orrori, gli Zen Circus, i Cani…la buona musica italiana esiste, l’importante è non smettere di cercarla; perché, come sempre succede in Italia, il talento viene nascosto e non valorizzato. Quindi ascoltate e diffondete!

P.S.: forse lo stesso ragionamento si applica in tutti i campi. Forse troviamo dieci autisti di autobus che fanno arrivare i mezzi in orario, dieci vigili che fanno le multe ai Suv in doppia fila, dieci politici assolutamente onesti. Forse dobbiamo solo cercare.

Hugo Cabret


Perché Johnny Depp nell'Hugo Cabret in 3D di Martin Scorsese?

Odo Paganelli 2H


The invention of Hugo Cabret
Questo film e’ un omaggio degli uomini di cinema contemporanei a quello straordinario inventore e anticipatore che fu Georges Méliès (1861-1938).
Méliès è il riconosciuto inventore del ‘cinema di finzione’, degli ‘effetti speciali’ e di una miriade di tecniche fondamentali del cinema, dal montaggio all’uso del colore, ottenuto, all’inizio,  colorando a mano i singoli fotogrammi.
Hugo Cabret film di Martin Scorsese prodotto anche dalla Infinitum Nihil di Johnny Depp, che si ritaglia come Martin Scorsese un piccolo cammeo all’interno del film , proprio di Johnny Depp parliamo che non solo è uno dei produttori, ma ha anche fatto parte delle di un sestetto di chitarre! ( Per Martin Scorsese vi lascio il piacere di riconoscerlo nel film).
Scritto da John Logan, che ha adattato il romanzo per ragazzi dell’americano Brian Selznick, di Brian Selznick, pro-nipote di quel David O. Selznick, produttore di Via col vento: The invention of Hugo Cabret è ambientato nella Parigi degli anni Trenta, un bambino più grande della sua età sopravvive a stento schivando la vita. E’ il piccolo orfano Hugo Cabret, che dopo la morte dello zio, manutentore degli orologi della stazione ferroviaria, è costretto a rubare quanto gli serve per sopravvivere. Suo padre gli ha lasciato un fantastico automa trovato nella soffitta di un museo, dimenticato chissà per quanto tempo e miracolosamente sfuggito all’incendio nel quale l’uomo ha perso la vita. Tra l’automa da riparare e il ragazzo si instaura dunque un rapporto tutto speciale, e la missione di Hugo sembra essere quella di ridare vita a quell’ammasso di complicati ingranaggi. Ma per farlo funzionare il bambino ha bisogno di materiali, ed è costretto a rubare pezzi e piccoli ingranaggi che solo i giocattoli possono contenere. Hugo quindi decide di sottrarli ad un negozio di giocattoli situato all’interno della stazione, ma viene scoperto dall’anziano proprietario e da quell’incontro-scontro iniziano una serie di fatti legati l’uno all’altro proprio come in un intricato ingranaggio. Entrano nella storia altri interessanti personaggi, una ragazzina sveglia, nipote del giocattolaio, un fantomatico amico, l’ispettore ferroviario e lui: il cinema, con tutta la sua straordinaria magia evocativa…
Per Scorsese, è stato l'occasione per rendere omaggio alla fonte di illusionismo intrinseca del cinema, con la novità del 3D contribuisce a far riprovare al pubblico moderno il ritorno al senso di meraviglia, una volta ispirato dai l film di Méliès. Il 3D sarà il cinema di domani sarà stereoscopico - e olografico, e interattivo?




Qualche riflessione sul Lavoro


di Jessy Simonini IV G

“La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto.
Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società”
(Articolo 4, Costituzione della Repubblica Italiana)

Mi piacerebbe partire da qui. Da queste due frasi che sono forse l’essenza vera della nostra Costituzione, anzi dell’intera nostra Repubblica fondata, appunto, “sul lavoro”.
I costituenti sapevano piuttosto bene che cosa fosse necessario fare dopo vent’anni di fascismo: ricostruire in primo luogo un nuovo paradigma culturale, basato su parole e su concetti nuovi, su un lavoro che nulla ha a che fare con il corporativismo imposto dalla società fascista ma che è, al contrario, in grado di restituire dignità agli individui e alla società tutta. Speravano, i costituenti, che la nuova Italia nata dalle macerie del fascismo e della guerra, avesse come pilastro fondante il lavoro inteso come unico mezzo di emancipazione per milioni di cittadini, come unico strumento per raggiungere la libertà.
A settant’anni di distanza, le cose sono andate in modo diverso.
Nel 1970 fu introdotto il controverso Statuto dei lavoratori, che pone l’accento sulla dignità del lavoratore, sulla sua libertà d’opinione e di sciopero, garantendo tutele (o, secondo un vocabolario diverso, privilegi) ai lavoratori del nostro Paese. L’articolo 1, ad esempio, afferma che:

I lavoratori, senza distinzione di opinioni politiche, sindacali e di fede religiosa, hanno diritto, nei luoghi dove prestano la loro opera, di manifestare liberamente il proprio pensiero, nel rispetto dei principi della Costituzione e delle norme della presente legge.

L’articolo 8, invece:

E’ fatto divieto al datore di lavoro, ai fini dell’assunzione, come nel corso dello svolgimento del rapporto di lavoro, di effettuare indagini, anche a mezzo di terzi, sulle opinioni politiche, religiose o sindacali del lavoratore, nonché su fatti non rilevanti ai fini della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore.

Lo Statuto dei lavoratori rappresenta dunque un’importantissima tutela per gli occupati del nostro Paese; si tratta di regole che stanno alla base della nostra civiltà, che stabiliscono diritti e doveri imprescindibili nelle relazioni fra datori di lavoro e dipendenti, regole che è impensabile, in un momento di acuta crisi come quella che stiamo vivendo, indebolire o addirittura abolire come è stato più volte paventato o proposto.
L’articolo 18, il quale prevede il reintegro dei lavoratori licenziati illegittimamente nelle unità produttive che hanno più di quindici dipendenti, non è che il simbolo di una battaglia di civiltà e di libertà. In quest’ultimo periodo è stato al centro del dibattito: da una parte, i suoi strenui difensori (sindacati, sinistre), dall’altra, chi è disposto a farne a meno (governo, destre). Ma quando parliamo di articolo 18 parliamo di una tutela che non può, in un paese civile, essere stralciata o abolita, perché i diritti e le tutele per i lavoratori vengono sempre prima di ogni beneficio economico ed è dunque sterile imbastire una discussione ideologica e senza risvolti pratici sul tema. Mentre stiamo qui ad esprimerci contro o a favore l’articolo 18, la disoccupazione giovanile è al 30%, l’assenza di una politica industriale corposa e strutturata sta facendo perdere terreno al nostro manifatturiero e quindi anche i tessuti produttivi più robusti si stanno indebolendo, la cassa integrazione straordinaria è spesso finita e i lavoratori vanno a casa. E’ notizia di questi giorni che l’Omsa di Faenza non chiuderà. Eppure cento donne che nella loro vita altro non han fatto che produrre calze si ritroveranno a casa, nel bel mezzo della crisi peggiore di sempre, con il mutuo e le bollette da pagare.
Al contrario, è necessario ripartire da una seria, condivisa riforma del mercato del lavoro. Le proposte all’apparenza più efficaci oggi sono due: il pacchetto proposto dal senatore democratico Pietro Ichino e quello, sempre proposto dalla sinistra, a firma Boeri-Nerozzi.
Ichino, che da anni vive sotto scorta per le minacce ricevute dalle Brigate Rosse, propone una riforma che, nel quadro di quella che viene definita flexicurity- unione fra flessibilità e sicurezza sociale- istituisca un contratto unico a tempo indeterminato per i lavoratori, con un periodo di prova di sei mesi e tutele crescenti nel tempo, rendendo però più facili i licenziamenti e abrogando parzialmente l’articolo 18. Si tratterebbe di una grande innovazione nel mercato del lavoro italiano, in grado di aumentare la flessibilità e di garantire più dinamicità al sistema produttivo, pur con meno diritti per i lavoratori dipendenti e con tutele più deboli. Il datore di lavoro potrebbe infatti licenziare liberamente il suo dipendente per un qualunque motivo economico-organizzativo, e inoltre non ci sarebbero limiti ai licenziamenti collettivi. Per i licenziati è prevista un’indennità di disoccupazione tra il 60%-90% erogata dall’Inps e dalle stesse imprese. Il tema appare piuttosto delicato, perché se da una parte Ichino spinge verso un sistema semplificato e innovativo, l’Italia non è la Danimarca e c’è bisogno di tutele più forti, soprattutto in un momento di crisi come quello che stiamo attraversando.
La riforma Boeri-Nerozzi, invece, pur provenendo da due esponenti dello stesso partito di Ichino, ha un’impronta radicalmente differente. Questo progetto di riforma prevede un Cui (un contratto unico di inserimento a tempo indeterminato) che per i neoassunti sostituisce i contratti a termine. Inizialmente non sono previste le tutele dell’articolo 18, che partono solo dopo tre anni dall’assunzione. Il dipendente che viene licenziato nei primi tre anni gode soltanto di un’indennità di disoccupazione che cresce nel tempo.
La complessità del tema e della situazione che stiamo attraversando impone una riflessione seria e ampia sul Lavoro e sui diritti dei lavoratori dipendenti. Una riflessione che deve essere fatta fuori da ogni recinto o barriera ideologica, senza preclusioni o totem. E’ innanzitutto necessario smetterla di parlare di questioni marginali come l’articolo 18 (è paradossale parlare di licenziamenti quando il vero problema è la mancanza di posti di lavoro) e bisogna invece ripartire dai contenuti e soprattutto da una grande riforma che tenga conto delle necessità delle imprese e dei dipendenti, facendo essenzialmente due cose: semplificare la giungla dei contratti precari e a progetto, verso la costituzione di un contratto unico inclusivo e in grado di garantire tutele sufficienti e, in secondo luogo, costruire nuova occupazione, soprattutto per le giovani generazioni, in settori strategici per lo sviluppo di domani, come green economy e cultura. Perché se muore il lavoro è la società stessa che si decompone e si frammenta.

venerdì 15 marzo 2013


 “NO MAFIA”, PALERMO E’ COSA NOSTRA

di Laura Tramuto, 3C


Qui, sull’autostrada Palermo-Mazara del Vallo, l’azzurro del mare e l’odore di pesce fresco inebriano i sensi e la costa sembra pian piano scomparire dietro a Monte Pellegrino, alle spalle del quale nasce la città.
Una città piena di controversie, di contrasti e di scontri aperti e, allo stesso tempo, celati dietro fiumi di parole non dette o pronunciate a metà, dietro sguardi languidi ed arresi, dietro illusioni temporanee e proiettili risucchiati nel silenzio di un quartiere di periferia.
Beh, Palermo non è solo questo. È cultura, è storia, è civiltà, è popolo che cerca di farsi con le sue stesse mani.
Lo sapevano bene i magistrati che per anni hanno combattuto per questa città, perché venisse finalmente ripulita dal marciume che la mafia le ha gettato addosso, e lo sanno anche i palermitani di adesso, ma non ci credono più.

Accosto con la mia auto. Il motivo per cui hanno smesso di crederci è scritto qui, su questa stele: “23 MAGGIO 1992 – GIOVANNI FALCONE, FRANCESCA MORVILLO, ROCCO DICILLO, ANTONIO MONTINARO, VITO SCHIFANI”.
L’asfalto dell’A29, all’altezza dello svincolo di Capaci sembra raccontare ancora le luci di quella tarda mattinata, quando il giudice Giovanni Falcone, insieme alla moglie e agli uomini della sua scorta, da Roma stava rientrando in città, dove gli si prospettava un tranquillo week-end in famiglia.
Cento metri di polvere in un attimo offuscarono sudore e lacrime di tanti uomini di giustizia, come il capo della squadra mobile di Palermo, Boris Giuliano, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e il magistrato Rocco Chinnici; così, all’interminabile lista delle vittime di Cosa Nostra, si aggiunge anche il nome di Falcone.
Dando un veloce sguardo alla montagna, si nota con chiarezza l’indelebile scritta blu “NO MAFIA”, impressa a caratteri cubitali sull’edificio dal quale Giovanni Brusca ha deciso l’istante della morte del giudice palermitano, premendo con scettica ed incerta risolutezza il pulsante che avrebbe azionato il detonatore. Lui stesso, ora pentito, racconta di quegli attimi di indecisione e titubanza, culminati poi nella tragedia di una scelta sbagliata, di un pensiero confuso, di un’azione indotta.
D’altronde, anche i picciotti sanno di essere parte di un ingranaggio tremendo e spietato, dal quale difficilmente si scappa e si ritorna indietro, se non dando la vita, ma non vedono nessun’altra via d’uscita: tutt’attorno solo ignoranza, povertà, degrado, droga, malavita, corruzione. Niente futuro, solo presente, istante dopo istante.
Questa realtà era quotidianamente sotto gli occhi del Falcone bambino, nato nel quartiere della Kalsa, in cui il degrado e la delinquenza si fondono con la cultura storica che ha in sé origini arabe. Lo si può vedere dai cortili delle case piccole e basse, dai vicoletti stretti e angusti e dai colori terrosi che rivestono i muri. È qui che nel 1939 nacque il magistrato che, dopo essere venuto a contatto diretto con la criminalità organizzata, ebbe il coraggio di discostarsi dal mondo a cui apparteneva, per combatterne l’immoralità e la disonestà e proteggere la vera identità palermitana.
Una lotta alla mafia durata una vita, una vita spesa in magistratura fra atti d’inchiesta e interrogatori, indagini e confessioni di pentiti, processi e condanne, una vita al servizio della legge e della giustizia, segnata dalla rilevante partecipazione al Pool Antimafia, dall’intenso dialogo con il pentito Tommaso Buscetta e dall’istituzione del primo grande processo contro la mafia, il cosiddetto Maxiprocesso che conta 360 condanne per 2665 anni di carcere e che costituisce un grande successo storico per la lotta a Cosa Nostra.
Il giudice Giovanni Falcone si trovò al proprio fianco un collaboratore di fiducia, un collega tenace ed un amico dal valore inestimabile: Paolo Borsellino. Stesse radici, stesse origini, stessi ideali, stessa guerra.



Continuo il mio percorso, svincolo via Belgio: attraverso la Fiera del Mediterraneo fino a giungere a casa di Roberta, destinazione via d’Amelio. È una strada senza uscita, lunga appena cento metri, con corsie molto larghe e marciapiedi sconnessi. Fra i colori delle macchine, mi sembra ancora di scorgere la Fiat 126 che, in una qualsiasi domenica pomeriggio di luglio, venne fatta esplodere dal Castello Utveggio.
19 luglio 1992 è la data che riporta la lapide su cui sono incisi i nomi di PAOLO BORSELLINO, AGOSTINO CATALANO, EMANUELA LOI, VINCENZO LI MULI, WALTER EDDIE COSINA E CLAUDIO TRAINA, caduti qui di fronte all’enorme edificio in cui abitava la madre del magistrato palermitano.
Calpestando questo marciapiede, sembra di sentire il boato assordante, provocato dai cento chilogrammi di tritolo esplosi, la grida della folla accorsa, le sirene spiegate della polizia: un rumore ovattato, che mi riporta ad un’altra dimensione; eppure sembra tutto così realistico, per quanto lontano. Palermo rivive ogni giorno quei momenti, quegli istanti di panico e terrore, quei frangenti di abbandono e resa.

«Convinciamoci che siamo dei cadaveri che camminano», disse lo stesso Borsellino, poco prima di morire, avendo in bocca già quell’amaro sapore di sconfitta.
A poche settimane dalla morte di Falcone, la strage di via D’Amelio: cos’altro ancora? Una Palermo in ginocchio, devastata dalle guerre fra mafia e Stato, dalle stragi, dagli spari continui e mitraglianti, veniva blindata e le forze militari invadevano ogni angolo della città, per dare una risposta forte e decisa alla mafia, segno di una nuova consapevolezza e di una riacquisita fiducia nei confronti dello Stato.
Come testimonia l’Albero, sotto l’abitazione di Giovanni Falcone in via Notarbartolo, a lui dedicato e interamente ricoperto di fiori, foto e scritte, i giovani di oggi ci credono nella battaglia contro la mafia, pur rendendosi conto della complessità di questo fenomeno umano e del fatto che è profondamente radicato nel tessuto sociale della Sicilia più oscura e illegale; ma, come Falcone affermava, «La mafia non è affatto invincibile. È un fatto umano e come tutti i fatti umani ha un inizio, e avrà anche una fine. Piuttosto bisogna rendersi conto che è un fenomeno terribilmente serio e molto grave e che si può vincere non pretendendo eroismo da inermi cittadini, ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle istituzioni».

La meschinità della mafia sta nel nascondere la mente aristocratica, benestante e acculturata della politica dietro alle braccia dell’ignoranza e della delinquenza, determinata da una profonda povertà materiale e ideale.
Palermo ha tante facce: criminalità organizzata, culture variegate, mentalità diverse, ma -di certo- la Palermo in cui sono nata scrive la parola “mafia” in minuscolo.



Canzone di Fabrizio Moro, Pensa

Ci sono stati uomini che hanno denunciato
il più corrotto dei sistemi troppo spesso ignorato.Uomini o angeli mandati sulla terra per combattere una guerra
di faide e di famiglie sparse come tante bigliesu un isola di sangue che, fra tante meraviglie
fra limoni e fra conchiglie, massacra figli e figlie
di una generazione costretta a non guardare,a parlare a bassa voce, a spegnere la luce,a commentare in pace ogni pallottola nell'aria,ogni cadavere in un fosso.Ci sono stati uomini che […]
contro un'istituzione organizzata,
cosa nostra, cosa vostra, cos'è vostro?
è nostra la libertà di dire
che gli occhi sono fatti per guardare,
la bocca per parlare, le orecchie ascoltano non solo musica.
Ci sono stati uomini[…] consapevoli che le loro idee
sarebbero rimaste nei secoli come parole iperbole
intatte e reali come piccoli miracoli
idee di uguaglianza, idee di educazione
contro ogni uomo che eserciti oppressione,
contro ogni suo simile, contro chi è più debole,
contro chi sotterra la coscienza nel cemento.
Ci sono stati uomini che hanno continuato
nonostante intorno fosse tutto bruciato,
perché in fondo questa vita non ha significato
se hai paura di una bomba o di un fucile puntato.
Gli uomini passano e passa una canzone,
ma nessuno potrà fermare mai la convinzione
che la giustizia non è solo un'illusione “

hanno lasciato un segno con coraggio e con impegno,

      Un cancro radicato nella nostra terra


di Edoardo Mazzini, II I

Mafia. Una parola così lontana, che descrive un fenomeno ancora più lontano, se pronunciata o ascoltata nelle regioni del Nord, soprattutto nella nostra. Sì, ormai tutti conosciamo gli avvenimenti di Milano 2, di Malpensa, dei quartieri periferici delle principali città lombarde, delle infiltrazioni in Piemonte, ad Alessandria e Cuneo, ma l'Emilia Romagna viene da tutti reputata una regione "vergine" in questo campo. Eppure, prestando un minimo di attenzione alle statistiche siglate da poco  , è una delle regioni più in via di sviluppo e miglioramento, soprattutto dal punto di vista infrastrutturale, di tutta Italia. La cosa allora non suona un po' strana? La giustizia e i controlli qui, nella nostra regione, sono così stretti da impedire e debellare le infiltrazioni? E soprattutto, la mafia, non si sposta dove circolano denaro, risorse, appalti e opportunità di guadagno, soprattutto se esse possono durare nel tempo?Questo aspetto è molto controverso e i media di certo non ci aiutano a fare luce sugli avvenimenti riguardanti la nostra regione. Ma è indispensabile dire, in primo luogo, che la nostra regione non è più "vergine" da tempo. Abbiamo da poco esaminato, perfino sui giornali, che avevano in parte tentato di tacere su sviluppi minori, i casi di infiltrazione mafiosa nella costruzione delle nuove e importanti infrastrutture sanitarie ed aziendali a Reggio-Emilia. Si potrebbe poi tranquillamente citare il risultato di un blitz della finanza in cui sono stati recuperati svariati milioni di euro che si spostavano di mano in mano in modo a dir poco losco, soldi che dovevano essere adibiti alla ristrutturazione dei viali di circonvallazione a Ferrara. Oltre a quelli citati, troviamo altri casi eclatanti, ma il tema realmente più spinoso è il numero sempre maggiore di negozi, distribuiti nelle varie città della regione, che hanno iniziato, anche se in forma ridotta, a pagare il pizzo. Sembra una cosa impossibile, ma accade. Ci si potrebbe chiedere come possa essere la mafia, sì, proprio quella siciliana o campana, quella che fa pagare il pizzo, incendia le macchine e spacca le vetrine come atti intimidatori, essere giunta fin qui, nella nostra regione? Ebbene, la risposta è semplice: la nostra regione si sta evolvendo, si sta qualificando come una delle regioni più sviluppate in Italia a livello industriale, infrastrutturale e nel settore dei servizi. Ma naturalmente, per realizzare tutti i progetti, chiudere tutti gli appalti e concludere i lavori stanno ora circolando nella nostra regione capitali decisamente considerevoli e la mafia, notata una così proficua e redditizia opportunità, non si è di certo fatta indietro. Questo ci dovrebbe invitare a riflettere, a smettere di vedere la criminalità organizzata come un qualcosa che sta fuori dal nostro mondo, non solo nel quotidiano ma in un senso più generale, e ci dovrebbe portare ad un impegno, doveroso e vantaggioso a favore di noi stessi e della nostra regione. Questo fondamentale impegno consiste nell'alzare la voce, promuovere trasparenza, solidarietà economica, screditare eccessive rivalità aziendali e soprattutto impegnarsi, cittadino per cittadino, studente per studente, a combattere in ogni modo possibile, per ridare respiro alla nostra regione, che in un momento così importante del suo sviluppo ha bisogno di essere libera da catene, bavagli e impedimenti posti dalla mafia per assecondare i propri fini.


           Vincitori oggi, vinti domani

di Sabina Grossi, 3B


Con dispiacere e rabbia, ogni giorno constato la tendenza -dilagante e sempre più pericolosa- non solo all’indifferenza, ma alla totale e illusoria auto-convinzione di non aver nulla a che vedere con la Mafia.
Essa è infatti avvertita, dalla maggior parte delle persone che mi circondano, costantemente come un’entità lontana, indefinita, innocua, come un problema che non ci riguarda da vicino. E io ritengo che questo sia l’errore più stolto e riprovevole che ognuno di noi possa fare. Sfatiamo questo falso mito, la Mafia non è un siciliano minaccioso, armato di coppola e sigaro, che chiede il pizzo agli artigiani del suo Paese; non è un boss napoletano che si nasconde in un bunker e gestisce illegalmente un’organizzazione criminale; non è il latitante arrestato dopo trent’anni di fuga dalle Forze dell’Ordine; la Mafia non è più solo questo: come la nostra storia recente testimonia, un mafioso può anche lavorare alla luce del sole, dietro una scrivania o seduto su una poltrona di un qualsiasi ufficio, pubblico o privato, celato dietro le apparenze e protetto dai pregiudizi che molti di noi tuttora hanno rispetto alla realtà mafiosa. La Mafia non è il Sud. La Mafia non ha una razza, un volto, un accento.
La Mafia è ogni tipo di atteggiamento che, attraverso la violenza e l’illegalità, nuoce alla comunità. Si parla dei meridionali come se fosse a loro connaturato questo status, fingendo, per paura, di non essere fatti tutti allo stesso modo, di non avere la medesima natura, di non essere nel cuore e nella mente tutti uguali. Con questa viltà diffusa e con la mancata accettazione della realtà noi collaboriamo tutti i giorni alle vittorie della Mafia, che divora, avida e insaziabile, tutto ciò che è umano, come la dignità, il rispetto per il prossimo, la ragione.
Svegliamoci dal sonno, smascheriamo la verità che oziosamente non abbiamo indagato, e insieme costruiamo una coscienza comune all’insegna della legalità, della collettività e della libertà! Siamo tutti vittime della Mafia, direttamente o indirettamente, e per questo non abbandoniamo le realtà più colpite, perché difendere la vita dei più deboli significa garantirla a tutti!

JOSEPH KONY, E’ ORA DI AGIRE.





Nothing is more powerful than an idea whose time has come. Nothing is more powerful than an idea whose time is now”. (“Niente è più forte di un’idea il cui tempo è giunto. Niente è più forte di un’idea il cui tempo è ora”)
È con queste due frasi che inizia il video di Jason Russell, fondatore dell’associazione no - profit “Invisible Children”, il cui scopo è quello di porre fine alle atrocità causate da Joseph Kony. Kony è il leader di un’organizzazione criminale, la LRA:Lord’s Resistance Army, molto violenta, formata da un gruppo di attivisti ribelli che agiscono terrorizzando e massacrando senza nessuna pietà i civili dell’ Uganda del Nord. L’associazione “Invisible Children” è stata ufficialmente riconosciuta nel 2006 trovando con il passare degli anni crescenti consensi, tra i quali anche quello del presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Il video si può facilmente trovare su Facebook o su Youtube digitando “Joseph Kony 2012”. In questo (Nel) video si denunciano i crimini disumani di questo dittatore (non credo sia un dittatore!”criminale? e mettiamo delitti al posto del precedente “crimini?”) , che, da circa 26 anni, propaga il terrore nella parte settentrionale dell’Uganda e in particolare nel Gulu. Il filmato, che scadrà il 31 Dicembre 2012, incita le persone a diffondere il nome di Kony per fare in modo che tutti siano messi al corrente della crudeltà perversa di quest’uomo; infatti, attualmente, il novantanove percento della popolazione mondiale non ne conosce nemmeno l’esistenza.
Kony per 26 anni ha rapito i bambini per introdurli nel suo gruppo di ribelli LRA, le bambine e le ragazze per trasformarle in schiave del sesso e i ragazzi per farli diventare dei soldati: questi sono costretti ad uccidere le loro stesse famiglie; non di rado Kony muta i loro connotati facciali in modo brutale, facendoli diventare dei mostri, sia fisicamente che psicologicamente ed emotivamente. Ciò E’ accaduto a circa 30.000 bambini ( dal 1987 a oggi): è ora che a questi innocenti sia concesso di svegliarsi dall’orribile incubo che vivono ormai da troppo tempo e di ritornare alle loro famiglie; deve essere loro permesso di riprendersi l’infanzia, di tornare a sorridere, a giocare, a non aver paura di essere rapiti, stuprati o uccisi in ogni singolo momento, devono poter riuscire a dormire di notte senza pensare a chi dovranno uccidere la mattina seguente, devono tornare bambini. Kony non combatte per alcun motivo apparente (forse “senza alcuna giustificazione come pretesto”), vuole solo mantenere il suo potere, non è supportato da nessuno e ha più volte usato i comunicati di pace per riarmarsi e continuare ad uccidere. Joseph Kony, dunque, agisce non solo contro la legge, ma contro l’umanità. Le accuse per le quali è identificato come uno tra gli uomini più pericolosi al mondo riguardano sia crimini contro l’umanità che crimini di guerra, e includono : stupro, rapimento, schiavitù sessuale, maltrattamento, omicidio, sfruttamento minorile, saccheggio, attacco intenzionale a civili, violenze, mutilazione e persino cannibalismo. È per questo motivo che Kony è il primo accusato dall’ ICG (International Crisis Group). Il governo americano , seppur a conoscenza delle atrocità subite dai civili ugandesi, inizialmente non ha voluto intervenire perché i crimini di Kony non danneggiavano in alcun modo le attività politiche o economiche del paese. Jason Russell, però (io metterei tuttavia o “d’altro canto”, che sono avversative forti e quindi passibili di virgole parentetiche), ha voluto dimostrare che la gente era interessata, che sapeva, riunendo così in tutta l’America gruppi di manifestanti. Egli si è rivolto nuovamente al governo, parlando sia con i Democratici che con i Repubblicani, ma, al contrario della prima volta, in questo caso è stato ascoltato. Quindi il 14 Ottobre 2011 gli USA hanno acconsentito a partecipare attivamente alla lotta contro i terribili soprusi di Joseph Kony, prendendo in questo modo, per la prima volta nella storia degli USA, una decisione non per (a scopo di) autodifesa, ma perché era giusto, perché era la gente a chiederlo. E tutto ciò è avvenuto grazie a un breve discorso di Obama che autorizzava un centinaio di volontari americani a fornire supporto militare alle truppe ugandesi.
Riporto qui di seguito il discorso dl Presidente:

“ In appoggio della politica del congresso ho autorizzato un piccolo numero delle forze statunitensi a schierarsi in africa centrale per dare assistenza alle forze regionali che stanno lavorando alla rimozione di Joseph Kony dal campo di battaglia.
Cordiali saluti Barack Obama.”
Dunque, con l’aiuto dell’esercito degli USA e con la partecipazione di numerosi gruppi di protesta ( tra i quali il più importante è il TRI) si è potuto ricostruire quello che Kony aveva distrutto ( scuole, posti di lavoro, case, interi villaggi ecc). Tuttavia i problemi persistono: infatti Kony, venuto a conoscenza dell’intenzione degli USA di arrestarlo, è diventato più difficile da catturare (io metterei una frase del tipo “si è dato alla macchia” ), ha cambiato le sue tattiche, e perciò sono divenuti necessari militari ben addestrati e strumenti ad alta tecnologia: dunque ora più che mai il supporto internazionale è essenziale. Eppure questo, qualora non fosse più evidente che la gente è interessata, coinvolta, determinata a far cessare gli orrori in Uganda, potrebbe essere ritirato.
Bisogna allora dimostrare che la cattura di Joseph Kony non è solo nell’interesse dell’Uganda, ma di tutto il mondo, e per fare ciò bisogna innanzi tutto rendere famoso l’orribile stragista. Il suo nome deve essere dappertutto, non per venire celebrato, ma perché i suoi crimini siano messi in luce. A questo scopo si è chiesto l’aiuto di celebrità, atleti, artisti , miliardari, e soprattutto di politici cha abbiano l’autorità di far arrestare Joseph Kony.
Quando migliaia di persone chiedono al governo di fare qualcosa, ciò diventa di interesse nazionale, ed è questo che le associazioni gestite da Jason Russell e dai suoi collaboratori stanno cercando di fare. Taluni hanno detto: “Non stiamo solo studiando la storia dell’umanità, noi la stiamo plasmando”. Sono d’accordo. Non limitiamoci a conoscere le terribili verità di questo mondo, ma agiamo per eliminarle.
Qui di seguito il link nel quale troverete maggiori informazioni:
KONY2012.com
Quest’anno nella lotta contro Kony, il giorno di maggiore importanza sarà il 20 APRILE 2012, nel quale per tutta la notte i sostenitori del TRI, dell’associazione “Invisible Children e tutti quelli contro i crimini in Uganda commessi da Joseph Kony tappezzeranno tutte le più importanti città del mondo di volantini, poster e adesivi per far si che il pianeta possa iniziare a rendersi conto e ad agire di conseguenza. Il 20 Aprile anche a Bologna ci sarà l’incontro per combattere Joseph Kony. Il ritrovo è in Piazza Maggiore dalle 21 alle 23:30.


Combattiamo per la pace!